Negli anni 50 e 60, la sindrome atomica fu immortalata dal Dottor Stranamore, geniale interpretazione di Peter Sellers con la regia di Stanley Kubrik. Negli Stati Uniti, l’urgenza dei rifugi antiatomici si tradusse in un progetto federale del 1961, promosso da magnati e scienziati, quali Nelson Rockefeller ed Edward Teller, che di bombe nucleari ne capiva anche più di Stranamore; e fu perfino benedetto dal presidente Kennedy.
I tunnel della metropolitana di Mosca e di altre città del blocco sovietico furono progettati secondo il canone del rifugio antiatomico e, nel resto dell’Europa, la Germania costruì rifugi per il 3% della popolazione, l’Austria per il 30, la Finlandia per il 70. E la Svizzera è oggi coperta al 100%, se non di più, con quasi 300mila rifugi sparsi per tutti i cantoni, secondo una normativa costruttiva stringente e dettagliata. Dell’Italia poco si sa ma, durante il boom e il post-boom economico di quegli anni, il fai da te nazionale era di gran moda nel Nord Italia per la fortuna di qualche architetto specializzato. Il fenomeno fu però limitato a una fascia geografica ristretta, una quota modesta della popolazione italiana; e certamente non la più povera.
Alla fine degli anni 70 la consapevolezza della follia nucleare modificò radicalmente le cose. Se c’è una data importante da ricordare, questa è l’11 maggio 1979, quella del discorso di Lord Mountbatten of Burma a Strasburgo. “Come militare in servizio attivo per mezzo secolo, dico in tutta sincerità che la corsa agli armamenti nucleari non ha scopi militari. Le guerre non possono essere combattute con le armi nucleari. La loro esistenza non fa che aumentare i nostri pericoli a causa delle illusioni che hanno generato. Ci sono voci potenti in tutto il mondo che danno ancora credito al vecchio precetto romano ‘se desideri la pace preparati alla guerra’. Questa è un’assoluta assurdità nel contesto nucleare”. Da allora, molti sono convinti che il progressivo dimagrimento degli arsenali abbia reso il pericolo sempre meno rilevante.
Perché evocare oggi un brutto fantasma come questo, ormai sepolto nella zona grigia della memoria collettiva? Lo spunto deriva dal rinnovato interesse del mondo scientifico verso la questione. Le conseguenze ambientali di un conflitto nucleare furono studiate in modo approfondito negli anni 70 e 80, per esempio dal premio Nobel Paul Crutzen, soprattutto in ragione delle emissioni in atmosfera prodotte dagli enormi incendi che sarebbero causati dell’uso di armi atomiche. Negli ultimi 20 anni, però, la questione non ha ricevuto grande attenzione da parte dei climatologi, focalizzati sul cambiamento climatico prodotto dal riscaldamento globale.
Nell’abbondante produzione di scenari climatici degli ultimi anni, spesso razionali ma talvolta bislacchi, alcuni studiosi hanno recentemente esaminato l’eventuale impatto di una deflagrazione bellica in cui vengano impiegate armi nucleari. Lo studio, pubblicato nel 2019 sul Journal of Geophysical Research: Atmospheres, riguarda l’effetto di un conflitto nucleare tra Stati Uniti e Russia, condotto sfruttando le potenzialità dei rispettivi arsenali, ma limitato a questi due paesi. L’impatto climatico produrrebbe un trauma del clima a scala planetaria.
Con l’inverno nucleare la temperatura media globale scenderebbe di quasi 10 gradi Celsius, producendo cambiamenti estremi nel regime delle precipitazioni, con una diminuzione del 90 percento durante la stagione di crescita in gran parte delle medie latitudini. La crescita della di temperatura dai tempi preindustriali a oggi, un grado circa, impallidirebbe a fronte della riduzione di 10 gradi al di sotto della media climatologica. Questo assetto sarebbe certamente transitorio, ma durerebbe almeno due o tre anni, accompagnato dall’indebolimento o la scomparsa dei monsoni e da piogge mai viste in periodo storico sulle regioni desertiche.
Per un impatto climatico saliente c’è bisogno di una guerra globale, quella adorata dagli Stranamore di ogni tempo? Una guerra nucleare regionale tra India e Pakistan potrebbe ridurre la temperatura globale di 1 o 2 gradi per un lungo periodo, da 5 a 10 anni, con gravi impatti sulle precipitazioni e la radiazione solare. Uno studio del 2015 sull’impatto del conflitto sulla produzione agricola della Cina, il più grande produttore di grano al mondo, prevede che, nel primo anno dopo la guerra nucleare regionale, un ambiente più freddo, asciutto e buio ridurrebbe la produzione annuale di grano del 53 per cento, di riso del 30, di mais del 20. E nei cinque anni successivi, tali perdite sarebbero ancora cospicue: dal 16 al 26 per percento del riso, dal 9 al 2 percento del mais, dal 32 al 43 percento del grano.
Se questi impatti fossero indicativi anche degli effetti del conflitto in altri importanti paesi produttori, una guerra nucleare che sfruttasse molto meno dell’1% dell’attuale arsenale nucleare oggi disponibile nel mondo potrebbe provocare una crisi alimentare globale e mettere a rischio di carestia più di un miliardo di persone.
Questi scenari sono fantasmi del passato, Lord Mountbatten non ha parlato invano. Ma la curiosità scientifica che questi scenari stimolano, dopo anni di quiete, inquieta. E un conflitto nucleare potrebbe sì contenere il problema del riscaldamento globale della Terra per un po’ di tempo, riportando indietro l’orologio del riscaldamento globale, ma non nel modo più gradito, almeno agli studiosi del clima.