Venerdì sera. Devo preparare la cena, una cosa non troppo complicata, che accontenti tutta la famiglia. Il compromesso mette insieme una piadina e delle verdure. Per cambiare un po’ apro il freezer, tiro fuori la busta di cuori di carciofi che ho comprato qualche giorno prima al supermercato. Quando faccio la spesa leggo bene tutte le etichette e decido se comprare o meno quel prodotto. In questo caso a convincermi è la scritta “da filiera controllata”. Un claim rassicurante.

Ma che cosa significa “filiera controllata”? E’ un’espressione che psicologicamente mi garantisce la sicurezza alimentare dei prodotti acquistati e mi fa stare tranquilla sul fatto che non sia stato sfruttato il lavoro di nessuno, che non ci sia l’ombra del lavoro in nero. Ma sarà davvero così?

Il termine filiera in poco tempo è entrato a far parte del linguaggio comune del consumatore, e questo interesse non è sfuggito alle aziende che stanno facendo dell’impegno per la sicurezza e della certificazione dei loro alimenti un perno fondamentale della loro comunicazione. Nel 2018 i prodotti che riportavano informazioni sulla filiera (filiera controllata, filiera garantita, filiera certificata, filiera corta) sono stati quasi il 15% in più rispetto al 2017. Un trend positivo che conferma come il marketing sia straordinariamente efficace, ma per i consumatori più attenti c’è ancora molto da fare, e la domanda è: chi certifica quella filiera?

Una recente inchiesta di The Guardian rivela che l’assalto delle grandi multinazionali del food alle etichette che certifichino l’ecosostenibilità sta mettendo in crisi il controllo stesso delle filiere “garantite”. E’ il potere del greenwashing, ovvero le aziende che decidono di puntare su campagne promozionali etiche senza di fatto esserlo. Questo avviene creando proprie etichette, propri loghi, persino proprie pagine web con informazioni e definizioni di equità stabilite dall’azienda stessa, senza un ente terzo che ne certifichi gli standard. L’effetto è quello di ritrovarsi con centinaia di slogan e loghi colorati che indurranno il consumatore a una scelta “green”, ma che in realtà non significano nulla. In pratica, controllato e controllore sono la stessa persona.

Oggi che questa scelta etica è diventata di fatto un brand in grado di far guadagnare miliardi di euro – solo in Italia nel 2018 questo giro d’affari ha superato i 3,5 miliardi di euro, con una crescita del 2,6% rispetto al 2017 (Osservatorio Immagino 2019) – le aziende puntano a internalizzare il processo di controllo e adeguarlo alle proprie esigenze, piuttosto che delegare a organizzazioni esterne.

A subire maggiormente il colpo è la più grande organizzazione mondiale del commercio equo e solidale, la Fairtrade International, che grazie alle sue battaglie dagli anni Ottanta e Novanta in poi ha sensibilizzato il consumatore sull’origine dei suoi acquisti e oggi fatica ancora di più a imporsi sul mercato. Siamo quindi nel Far West dei loghi e delle etichette green, perché ancora oggi, nonostante tutto, non è chiaro che anche un’etichetta che certifichi realmente ecosostenibilità non è solo marketing ma è un’azione politica fondamentale, in grado di cambiare il mondo.

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