Perché continuare a fotografare i tramonti senza viverli? “Alla fine sono tutti uguali quando immortalati, ciò che cambia è l’esperienza”. Al netto dell’ovvietà che trasuda da questa verità serve aggiungere una tara pesante: la sentenza arriva da una donna che si è creata e da sempre ha vissuto grazie alle immagini. Ma Benedetta Barzini, già prima top model italiana lanciata nei Sixties newyorkesi di Avedon e Vreeland, amica e musa di Warhol e Dalì, negli anni 70 convinta femminista e oggi docente e giornalista, si è da tempo emancipata dalla prigionia dell’immaginario cine-fotografico rilevandone tutta la sua ambiguità, facilmente mutabile in tossicità politica. Mai avrebbe creduto che a rinchiuderla nuovamente nel malefico obiettivo sarebbe stato il suo ultimogenito Beniamino, sangue del suo sangue, la nemesi perfetta.
Il documentario La scomparsa di mia madre di Beniamino Barrese nasce dunque dal paradosso di una sfida consanguinea, quella tra la ex cover girl di Vogue che a 75 anni aspira solo a sparire dai riflettori, e suo figlio filmmaker, animato dalla voglia di cogliere l’anima privata (e politica) di una mamma straordinaria e contestualmente di riflettere sulle potenzialità del dispositivo audiovisivo, spingendolo su territori di ambiziosi sconfinamenti.
Presentato con successo in prima mondiale al Sundance da cui un tour internazionale che sta toccando in questi giorni il 63° London Film Festival, il film è in uscita il 10 ottobre nelle sale italiane per Reading Bloom e Rodaggio, eppure anche nel suo offrirsi al grande pubblico risente dell’intima contraddizione che l’ha generato. Perché è Beniamino stesso, in famiglia e dalla mamma chiamato Ben, ad accusarla: “Non solo ho impiegato 5 anni per realizzarlo, ma ora che è pronto da mesi faccio ancora fatica a farlo vedere questo film, è come se fosse un’arma a doppio taglio: lo voglio mostrare e allo stesso tempo nascondere”.
Le ragioni sono tutte mirabilmente contenute nell’opera, così disobbediente alle regole del documentario classico eppure così pertinente rispetto al dibattito fra la “sostanza” della realtà e quella della sua rappresentazione immaginaria, che si fa certamente simbolo ma anche materia rilevatrice, come la semiotica insegna. Come uscirne?
“Facendo il film su mia madre mi sono messo inevitabilmente contro di lei, ma non mi sono arreso perché volevo trasmetterle che non tutto è negativo nella creazione delle immagini, specie nella loro “missione” di preservazione della memoria benché mia mamma si ostini a dire che ‘la memoria fa schifo’; ecco io volevo dimostrarle che si può ri-costruire – e salvaguardare – una Bellezza attraverso l’uso sapiente della riproduzione, serve solo sapersi emancipare dalla bulimia delle immagini da cui siamo invasi e pervasi”.
E tali ineccepibili aspetti teorici sono esemplarmente informati da Barrese, capace di non sottrarre se stesso dalla messa in campo con sua mamma, sia come voce che come corpo, perché la sua è essenzialmente una riflessione sul corpo, nella sua complessa dicotomia di presenza/assenza che – diciamolo francamente – nutre le basi delle più alte speculazioni ontologiche. Così, mentre Benedetta & Beniamino litigano sulla “teoria”, i loro corpi si scrutano, si inseguono, l’uno si sottrae all’obiettivo dell’altro per poi ritornare a mostrarsi: d’altra parte lei è sempre una mamma, anzi, una madre a tratti dolcissima che accarezza i desideri di un figlio “genuino” (“ho messo al mondo una meraviglia di ingenuità”) eppure caparbio e determinato come lei. “Mamma per favore, posa come facevi negli anni ’60”. Detto fatto, ed ecco una magnifica 75enne vibrare e roteare su se stessa lasciando il tempo sospeso in una Bellezza immutata.