L’Ecuador torna alla ribalta. Lo fa con una specialità per la quale aveva raggiunto notorietà mondiale a cavallo tra gli anni ’90 e i primi 2000: manifestazioni di piazza gigantesche, blocchi stradali sulle principali arterie del paese e persino all’interno delle città, scontri con la polizia ad ogni angolo, una nazione in rivolta contro il proprio presidente.
Non è un popolo con cui si scherza, quello ecuadoriano, specie quando a mobilitarsi sono i settori indigeni, le cui proteste hanno portato negli anni addietro alla caduta di ben tre presidenti. Questa volta non sarà altrettanto facile: per il momento il presidente Lenín Moreno gode del saldo appoggio delle forze armate e il parlamento non pare intenzionato a tirargli qualche brutto scherzo. Ma il repertorio della protesta, quello sì, sembra aver toccato nuove vette: ieri, nel pomeriggio, i manifestanti sono riusciti a impossessarsi dell’assemblea nazionale, lasciata in verità piuttosto sguarnita, segnale di una difficoltà a fare i conti con una rabbia divenuta dilagante. Tant’è vero che poche ore prima, il presidente aveva deciso di spostare temporaneamente la sede del governo dalla capitale Quito al secondo centro del paese, la città costiera Guayaquil, anch’essa colpita dalla protesta ma in misura molto minore e tradizionalmente bastione conservatore, alieno alle pirotecnie protestatarie.
Ma cosa è successo per generare un caos di tale portata? Per inquadrare la situazione, è bene fare un passo indietro. Lenín Moreno è al governo dal 2017 ed è succeduto a Rafael Correa, il presidente di ispirazione socialista che aveva governato l’Ecuador per dieci anni. Moreno, vicepresidente di Correa dal 2007 al 2013, era stato scelto dallo stesso Correa per concorrere alle elezioni sotto il vessillo del movimento di cui erano i due volti più popolari.
Contro ogni previsione, Moreno ha voltato faccia pochissimo dopo essersi insediato. Si poteva intuire che la sua linea sarebbe stata più morbida, ma nel suo caso si è andati molto oltre: non solo sono tornate in piena regola le politiche neoliberiste, non solo l’Ecuador è tornato sotto l’egida degli Stati Uniti, ma al momento Correa non può rimettere piede in Ecuador per i mandati di cattura che pendono sulla sua testa. Il secondo vicepresidente di Correa (e iniziale vicepresidente dello stesso Moreno), Jorge Glas, è dietro le sbarre e dirigenti politici di ogni rango del decennio di Correa che non hanno fatto abiura del passato sono dei perseguitati politici, in un’ottica di lawfare che, a livello continentale, prende di mira gli antichi inquilini dei palazzi presidenziali e la loro classe politica (vedi Brasile e in misura minore Argentina).
La miccia che ha scatenato la tensione è molto simile a quella che ha generato la mobilitazione dei gilet gialli in Francia. Attraverso il decreto 883 infatti, Moreno ha disposto l’eliminazione del sussidio ai carburanti, una sovvenzione statale storica, la cui abolizione ha un impatto negativo, oltre che sugli “addetti ai lavori”, anche su tutti gli strati medio-bassi della popolazione (specie tramite la minaccia di incremento del biglietto del bus, vero e proprio tabù ecuadoriano). Proprio per questo, sebbene l’agitazione sia stata indetta inizialmente dai sindacati dei trasportatori e dai tassisti, ben presto si è convertita in un j’accuse generale nei confronti del presidente, coinvolgendo un ventaglio di settori sociali e scoperchiando un malcontento che ormai ribolliva sotto la superficie.
Trasportatori e tassisti, probabilmente messi alle strette dal governo, hanno ormai da qualche giorno revocato la propria mobilitazione, eppure la protesta non ha dato cenno di voler scemare. D’altronde, la questione eccede il singolo provvedimento che è solamente il primo pezzo di un pacchetto di misure concordate con il Fondo Monetario Internazionale. Il disegno è quello classico: da una parte, esenzioni, deduzioni e amnistia fiscale per i grandi capitali, dall’altra una riduzione senza pari dell’apparato statale con tagli al personale che andranno a colpire i servizi essenziali, insieme a un attacco diretto ai diritti lavorativi, sia nel settore pubblico sia in quello privato.
Non appena Moreno ha constatato che la protesta montava oltre ogni previsione, ha scartato la possibilità di revocare il rincaro ai combustibili ed è ricorso allo stato d’emergenza che gli permette di adottare misure repressive molto più pesanti. Le violenze e gli abusi hanno già fatto capolino: oltre 750 arrestati, due morti (di cui uno indotto a gettarsi da un ponte), moto della polizia che travolgono manifestanti inermi a terra, manganellate a volontà, dispiego di mezzi blindati. A questo si è aggiunta l’occupazione della radio Pichincha Universal, uno dei pochi mezzi di informazione a coprire con imparzialità l’andamento delle proteste in mezzo a un imbarazzante silenzio informativo che testimonia molto bene la parzialità dei grossi media ecuadoriani.
È difficile prevedere l’evoluzione che prenderà la protesta nei prossimi giorni. Il ritorno del movimento indigeno nelle piazze, dopo una fase di smarrimento che ha visto la partecipazione al governo di Moreno della sua più importante organizzazione, la Conaie, è foriero di una combattività a oltranza. Insieme agli indigeni ci sono studenti, lavoratori, intellettuali, moltissimi giovani. C’è la partecipazione di molti collettivi e organizzazioni sociali, dagli ecologisti alle femministe, e naturalmente ci sono i sostenitori dell’ex presidente Correa, accusato da Moreno di ordire un colpo di Stato in combutta con Maduro.
Tuttavia, tra Conaie e i seguaci di Correa non corre buon sangue e più in generale non sembra esserci ancora uno sbocco politico-elettorale chiaro. C’è tempo: si vota, salvo sorprese – difficili visto che anche quando i presidenti “cadono”, le legislature tengono – appena nel 2021. Intanto, se si riuscisse a bloccare il decreto 883, sarebbe già una grande vittoria.