di Stefano Sepe

“Il vecchio e il nuovo” in Matteo Renzi si intersecano e si sovrappongono. Fattori per un insieme altamente produttivo, che invece diventano una miscela esplosiva. Al pari della nitroglicerina, i due elementi sono pronti ad esplodere alla minima scossa. Nel caso specifico, non serve nemmeno l’intervento esterno. Come è avvenuto ripetutamente, è Renzi stesso a produrre lo scoppio.

L’uscita dal Pd, ultima mossa (in ordine di tempo), potrebbe sembrare illogica, visto che proprio il senatore di Rignano aveva spinto verso la formazione di un governo, che d’ora in avanti si troverà in una situazione anomala. Gli equilibri interni alla maggioranza saranno diversi, a tutto vantaggio del Movimento 5stelle, nel quale Luigi Di Maio potrà far pesare ancor più la prevalenza numerica rispetto ad un partito, il Pd, che vede ridotta la sua forza parlamentare. Davvero un bel risultato per un politico che è stato segretario del partito che adesso lascia, dopo averlo precipitato dal 40% del 2014 al 18% delle elezioni dello scorso anno.

Ma tutto ha una logica. Renzi ha bisogno della “mani libere”, psicologicamente non accetta di avere freni, di dover mediare nelle scelte politiche e relative alle persone di cui circondarsi. Ma, soprattutto, il “rottamatore” non tollera di non essere il primo. Similmente a quello che affermava Cesare – “meglio primo in un villaggio della Gallia che secondo a Roma” – Renzi deve sentirsi padrone. In merito è illuminante l’affermazione secondo la quale nel Pd si sentiva un “intruso”. Detto da uno che da segretario/padrone del suo (ex) partito ha infilato i suoi fedelissimi dappertutto, suona come una beffa.

Renzi ha vissuto e vive di risalto mediatico: sotto questo profilo è l’emblema massimo di un tempo della politica nel quale conta soprattutto l’immagine, nel quale l’importante è mobilitare la “gente” a prescindere dalla praticabilità delle promesse fatte. A prescindere dai contenuti ideali del progetto politico. Una concezione della politica essenzialmente – a dire meglio, totalmente – fondata sulla tattica, senza storia. Un procedere per piccoli, o grandi, vantaggi posizionali, incurante della direzione di marcia.

A questo andamento da consumato slalomista si aggiunge un narcisismo che ha pochi confronti. Paragonabile a Silvio Berlusconi, al quale lo accomuna l’idea di essere sempre quello che ha capito tutto; omologo nei tratti da eterno comiziante a Matteo Salvini, al quale somiglia per arroganza verbale e per capacità (rara e che gli va riconosciuta) di affermare oggi il contrario di quello che ha detto ieri e di ciò che dirà domani.

Infine, la scelta di parlare sempre fuori e “oltre” i luoghi canonici. Lo fu per il modo nel quale nella trasmissione televisiva di Fabio Fazio soffocò l’ipotesi di un accordo con il Movimento 5stelle dopo le elezioni; analogamente per l’intervista nella quale si è pronunciato sulla necessità che l’accordo di governo si raggiungesse. Nella sua uscita dal Pd ha scelto, da consumato uomo di spettacolo, il doppio registro: prima l’intervista a un quotidiano da lui odiato, poi la consueta passerella nel salotto televisivo di Bruno Vespa.

Dopo il disastro del referendum del 2016, Renzi avrebbe dovuto scegliere di uscire di scena. Cosa, peraltro, che aveva promesso egli stesso prima del risultato di una consultazione sulla quale aveva giocato tutta la sua carriera politica. Ma stare lontano dai riflettori non è possibile per il giovanotto che andava alle trasmissioni televisive a quiz e che era riuscito a fare della “Leopolda” un luogo personale di autocompiacimento e di tripudio per il suo essere leader. Primo, incontrastato, incontrastabile. Ma la vita non sempre asseconda i nostri sogni e, meno ancora, le nostre manie. Oggi è alla testa di una forza politica di dubbia collocazione, di incerto avvenire, ma che gli permette di avere nelle mani un bastoncino di comando. Si vedrà presto per farne cosa.

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