A dare tra i primi l’avviso che una complessa e pesantissima recessione era in arrivo è stato, nel febbraio 2008, il grande economista Nouriel Roubini con un articolo dal titolo più che eloquente: Anatomy of a Financial Meltdown (Anatomia di un crollo finanziario) che ora viene riproposto da Project Syndicate per festeggiare i 25 anni dall’inizio delle sue pubblicazioni.

Di quella crisi, poi ribattezzata The Great Recession per distinguerla subito da quella del 1929 si è già detto e scritto tutto, ma perché dunque scegliere proprio quella del 2008? E perché proprio questo articolo? Per molte ragioni che ora, almeno parzialmente, vedremo, ma soprattutto perché Roubini ha centrato perfettamente sia il tempo per suonare l’allarme – 15 febbraio 2008, ovvero 8 mesi prima del grande crollo di Wall Street – sia le ragioni profonde di quel crollo, iniziato almeno un anno prima, e per ragioni molto più ampie di quelle che per molto tempo sono state raccontate.

Non solo è pertinente, Roubini, nell’elencare le cause del disastro, ma è anche incredibilmente sobrio e preciso nel fare una analisi impeccabile di ciò che stava per accadere. Citerò qui solo alcuni dei passaggi più significativi del suo scritto.

The problem is no longer merely sub-prime mortgages, but rather a ‘sub-prime’ financial system” (Il problema non è più solo quello dei mutui a forte rischio, ma quello di un intero sistema finanziario a forte rischio). Infatti il problema non è mai stato solo quello dei mutui, dati anche a chi non avrebbe mai avuto la capacità di rimborsarli, ma al fatto che gli speculatori di Borsa hanno potuto far conto su tutta una serie di strumenti finanziari che si sono nel tempo aggiunti alla già pericolosa introduzione della “cartolarizzazione” dei mutui.

Invece di restare nella “pancia” delle banche fino a scadenza, il mutuo veniva (e viene ancora) trasformato in quote di prodotti finanziari: i Cdo, Collateralized Debt Obligation, o Mortgage-Backed Securities (Mbs), venduti a risparmiatori perlopiù ignari di ciò che comprano, ma attratti da alti rendimenti che con la crisi crollano, trasformando l’investimento in carta straccia.

Ma siccome la grande quantità di queste operazioni consente inizialmente grandi guadagni alle banche e agli altri soggetti finanziari attratti come le mosche dal miele, anche le banche hanno fatto “indigestione” di questi prodotti e di altri, come i Leveraged Buy-Outs (Lbo) che consentono a soggetti già coinvolti nell’attività, ma non proprietari, l’acquisto della stessa attraverso un forte indebitamento con banche o finanziarie (spesso smembrando le unità produttive).

Banche e finanziarie cercano naturalmente di proteggersi dal rischio (crescente) di default insito in queste operazioni coprendole con operazioni di Swaps (Cds: Credit Default Swap), cioè una specie di assicurazione contro il rischio di fallimento del debitore. Solo che, quando i fallimenti diventano troppi, anche questi soggetti falliscono a catena.

La stessa sorte, nel 2008, era già segnata anche per i due colossi semi-pubblici del credito (Freddy Mac e Fanny Mae) designati a incentivare la copertura finanziaria dei mutui per le case. Erano già maturi per il fallimento con una esposizione di circa 5 trilioni di dollari nei Mbs, ma sono stati salvati dal massiccio intervento pubblico di Tesoro e Banca Centrale, che hanno fornito subito 200 miliardi di dollari e la continua assistenza finanziaria fino al completo salvataggio. Tutte queste operazioni, e molte altre attivate in tempi più recenti, mettono in evidenza un sistema finanziario che ancora non ha trovato solidità.

Un grande pericolo, dice ancora Roubini, è che in una nuova crisi sussiste ancora il rischio di incontrare nei mercati troppi investitori forzati a vendere patrimoni illiquidi in mercati altrettanto o ancor più illiquidi. Il che genera inevitabilmente un crollo dei prezzi con la conseguente spirale a scendere sempre più velocemente.

A questo proposito posso aggiungere che, attualmente, gran parte della responsabilità di questa crisi è proprio da imputare alla scriteriata politica sui dazi avviata da Donald Trump da circa un anno, che ha dato il via a politiche di decrescita a livello globale assolutamente dannose per tutti, in quanto è provato che si ritorcano anche contro l’interesse degli Usa.

Dovrebbe (anche lui!) ricordare l’elementare insegnamento di Krugman (e Keynes): per evitare le crisi bisogna spendere di più, non di meno, perché in campo pubblico se io spendo meno faccio mancare qualcosa ad un altro che, a sua volta, dovrà tagliare delle spese, e così via fino a ritrovarsi proprio al centro di una crisi recessiva che investe tutti.

Forse Trump sperava di far cadere la crisi solo sugli altri (come ha sempre fatto nella sua vita imprenditoriale): imparerà che guidare una grande nazione come gli Usa è cosa completamente diversa dal guadagnare sugli immobili e sulle sale da gioco. Ma sarà troppo tardi.

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