di Claudia De Martino*

L’antisemitismo in Europa è una fenice continuamente risorgente dalle proprie ceneri: numerosi articoli documentano con grande dovizia che il numero degli incidenti a sfondo razziale antisemita sono costantemente in crescita in Europa, con un +20% in Germania, +16% in Gran Bretagna e un drammatico +74% in Francia nel 2019 rispetto al 2018. Molti episodi si limitano a violenze, oltraggi, atti vandalici, provocazioni o profanazioni di cimiteri, sfociando solo in alcuni casi in stragi aperte come avvenuto ieri nella città della Germania orientale di Halle, dove un estremista di destra ha cercato di irrompere in una sinagoga in cui 80 persone erano riunite per le celebrazioni di una festività ebraica, la festa dell’espiazione (dei peccati) (Yom Kippur).

La Germania dell’est non è nuova a episodi di violenza, con la città di Halle in particolare che ha visto violentissimi scontri durante le manifestazioni del 1° maggio scorso tra estremisti di destra e manifestanti di sinistra riuniti nell’annuale corteo per i diritti dei lavoratori. Ad Halle, come in altre città della Germania dell’est (Chemnitz, Koethen), si tengono ogni due settimane anche le cosiddette “manifestazioni del lunedì”, ovvero riunioni di gruppuscoli di estrema destra (normalmente poche dozzine di persone, che però recentemente sono cresciute fino a raggruppare 450 partecipanti) che contestano il senso di colpa di cui è preda la Germania nei confronti dell’Olocausto e degli ebrei.

Il “movimento del lunedì” ha origine nelle speculazioni teoriche di due ex terroristi rossi della Raf, poi convertitisi a un acceso nazionalismo etnico (Guenther Rohrmoser e Horst Mahler), che nel 1997 iniziarono a organizzare comizi pubblici per spronare il popolo tedesco a scrollarsi di dosso il senso di colpevolezza di cui sarebbe preda la Germania per i crimini da lei perpetrati durante la Seconda guerra mondiale.

Non è un caso che dal 1998 in poi le manifestazioni del lunedì portate avanti da gruppuscoli afferenti al movimento Für Unser Land (“Per il nostro Paese”), che si rifanno allo slogan “La Germania deve restare tedesca”, abbiano preso di mira la costruzione del monumento all’Olocausto a Berlino. Dal 2003 lo stesso gruppo ha costituito un’associazione negazionista che è incorsa in numerosi processi giudiziari, ma che tuttavia continua a fare adepti in Germania, mentre il suo ideatore, Mahler, nel 2017 è stato oggetto di mandato di cattura europeo e si è spinto a richiedere asilo nella vicina Ungheria di Victor Orban, che fortunatamente gliel’ha negato. Negli ultimi anni, gli estremisti del gruppo neonazista hanno dimostrato di poter attaccare indifferentemente ebrei, musulmani e neri, analogamente rifugiati e cittadini tedeschi, considerati parassiti e corpi estranei alla nazione tedesca.

Se l’antisemitismo c’è sempre stato, però è interessante interrogarsi oggi su quali fattori spingano verso il suo recente riemergere in un contesto profondamente post-religioso e secolare come quello odierno. Il pedagogista Saul Meghnagi scrive che il “razzismo è una deficienza nella relazione con gli altri”, ovvero un paradigma del rapporto umano con l’alterità, ma è anche un fenomeno profondamente radicato in un contesto storico, che “si collega alle norme relazionali, ma anche giuridiche di tutela. Dipende (quindi) dalla fase temporale in cui si situa e dal sistema dei rapporti in essa vigente” (Meghnagi, 2008).

L’attuale antisemitismo va interpretato sulla base del contesto paneuropeo che gli fa da sfondo e che, in questo caso, è riconducibile non tanto a una profonda crisi economica della Germania dell’est, a cui molti osservatori vorrebbero attribuirla, ma alla seria crisi identitaria che attraversa l’attuale Unione Europea. Se è vero, infatti, che in Germania l’AfD (Alternative per la Germania, partito di estrema destra) arriva a prendere in alcuni Stati fino al 27,5% (in Sassonia), è altrettanto vero che fenomeni di antisemitismo scuotono tutti i Paesi europei, inclusi quelli, come l’Italia, dove i neonazisti sono fortemente minoritari e gli ebrei sono ormai ridotti a percentuali ridottissime (circa 25mila persone).

Al di là dei motivi contingenti, il nuovo antisemitismo europeo si nutre del vuoto di consapevolezza storica che si è affermato in Europa a seguito della scelta politica dell’Unione Europea di presentarsi come un attore politico nuovo indifferente e neutrale rispetto alla pesante eredità europea del 900. Questa scelta ha determinato la segmentazione della questione ebraica secondo linee di ripartizione nazionale, conservando e alimentando memorie nazionali distinte della persecuzione degli ebrei in ogni Paese Ue. Si è dunque avviato un cortocircuito in cui ogni comunità nazionale ha cercato di scaricare le colpe più pesanti del proprio passato antisemita sui Paesi limitrofi, che è sfociata nella legge sulla negazione della complicità polacca nei campi di sterminio (2018), poi parzialmente abrogata su pressione di Israele.

Non è un caso che dai Paesi dell’Europa dell’est, inclusa la zona della vecchia DDR tedesca, provengano maggiori pressioni verso un revisionismo storico che prescinde dalla crisi economica, ma che attinge le proprie radici nella ricostruzione di un’identità nazionale fortemente comunitaria ed esclusivista con cui l’adesione alla pluralistica e liberale Unione Europea non si pone necessariamente in contraddizione (come insegna anche il caso dell’Ungheria di Orban).

In altre parole, l’attuale ritorno dell’antisemitismo è legato al vuoto che l’Unione Europea ha voluto lasciare in materia di valori e contenuti della cittadinanza europea, mai declinati dopo l’abbandono del progetto di Costituzione Europea (2004): un vuoto sul quale prosperano ideologie nazionaliste e identitarie puntellate da revisionismo storico che dovrebbero essere incompatibili con l’adesione a un progetto politico che prescinde da identità di etnia, religione o orientamento sessuale.

*ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali

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