Premiata, scrive il Comitato norvegese, "la sua iniziativa decisiva per risolvere il conflitto sul confine con la confinante Eritrea", anche se la strada intrapresa è solo all’inizio ed è tutta in salita. Significativo, tuttavia, che in una trattativa di pace il premio vada a uno solo dei contraenti e non sia andato anche al presidente eritreo Isaias Afewerki, che non ha avviato un processo riformatore nel suo Paese
Non è un Nobel alle intenzioni quello assegnato ad Abiy Ahmed Ali. Non è un premio “preventivo”, come quello assegnato dieci anni fa a Barack Obama, ma – come dichiarato al momento della proclamazione a Oslo – un riconoscimento che premia “gli sforzi per la pace” compiuti dal giovane premier etiope. D’altro lato, resta un premio che giunge non a fine carriera, a suggello di una vita specchiata a favore della pace, ma all’inizio di un percorso politico, finora indirizzato alla pacificazione di una regione molto complessa.
Lui, Abiy Ahmed, 43 anni, è in carica dal 2 aprile 2018 e in poco più di un anno ha già fatto parlare molto di sé. Il suo arrivo al potere in Etiopia – giunto in una delicata fase di crisi politica – ha segnato da subito una svolta. Anzitutto, Ahmed è un oromo, ovvero appartiene all’etnia che nel paese è sì maggioritaria, ma da sempre marginalizzata. In secondo luogo, ha da subito instaurato un nuovo corso interno, liberando i tantissimi prigionieri politici, licenziando gli agenti responsabili di torture e mettendo fine alo stato di emergenza. Ma il vero motivo alla base del premio Nobel per la pace riconosciutogli è il riavvicinamento all’Eritrea, dopo il conflitto del 1998-2000 e la “pace armata” durata fino al suo arrivo alla presidenza del consiglio. Ahmed lo scorso anno ha impresso una svolta allo status quo, rinunciando ad una zona contesa, come prevedevano gli accordi di pace del 2000 non ancora compiuti. Su suo impulso, Etiopia ed Eritrea hanno siglato uno storico accordo il 17 settembre 2018, grazie al quale sono state riallacciate le relazioni diplomatiche, riaprendo le rispettive ambasciate, e le relazioni commerciali. Il ritiro dei militari dal confine ha permesso una normalizzazione degli scambi frontalieri. Sono ripresi anche i voli e le linee telefoniche fra i due paesi, interrotte da un ventennio.
Indubbiamente, ce n’è a sufficienza per motivare il prestigioso riconoscimento giunto oggi. Anche se la strada intrapresa è solo all’inizio ed è tutta in salita. La pace con il difficile vicino non è ancora stabilizzata. E Isaias Afewerki (il padre padrone eritreo, al potere dal 1993) non dimostra la stessa buona volontà di Abiy Ahmed: ha già compiuto passi indietro e si mostra recalcitrante. Poco tempo dopo la riapertura delle frontiere, sul versante eritreo sono ripresi controlli e condizioni imposte ai cittadini etiopi in transito, in maniera arbitraria e senza spiegazioni. Ed è solo uno dei segni della mancanza di buona volontà del regime eritreo.
Forse è per questo che il testo integrale delle motivazioni pubblicato dal Comitato Norvegese per il Nobel sottolinea, riferendosi a Ahmed, “in particolare la sua iniziativa decisiva per risolvere il conflitto sul confine con la confinante Eritrea”. Significativo che – in una trattativa di pace – il premio vada a uno solo dei contraenti e non a entrambi. Forse questo riconoscimento sarà sprone a riprendere le trattative, dopo gli accordi siglati ad Asmara e Jeddah nel luglio e settembre scorsi . “Un’importante premessa per il passo avanti – scrive ancora l’Accademia – è stata la volontà incondizionata di Abiy Ahmed di accettare le regole arbitrali della commissione internazionale sui confini del 2002”, sottolineando la ferma determinazione del premier etiope, ma aggiungendo, quasi ad equilibrare la valutazione, che laddove Ahmed ha porto la mano, Afwerki l’ha afferrata.
Si legge ancora: “Il Comitato norvegese per il Nobel spera che l’accordo di pace aiuterà a portare cambiamenti positivi per l’intera popolazione di Etiopia ed Eritrea”. Fra le righe, un auspicio ed un’esortazione a che le riforme intraprese in Etiopia (elencate subito dopo nel testo) possano vedere la luce anche in Eritrea: rimozione dello stato di emergenza, amnistia ai prigionieri politici, interruzione della censura sui media, legalizzazione dei gruppi di opposizione, significativo aumento del ruolo femminile nella vita politica e sociale, elezioni libere e giuste. Tutti passi già intrapresi da Ahmed, ma non da Afwerki.
Fra le altre azioni riconosciute da Oslo come meritevoli, il fatto che nel settembre 2018 Ahmed si sia speso per la normalizzazione dei rapporti diplomatici fra Eritrea e Gibuti, dopo molti anni di ostilità, o che abbia mediato nella disputa ancora in corso fra Kenya e Somalia su un’area marittima di confine. Ahmed ha anche svolto un ruolo chiave nella crisi in Sudan, agevolando il processo di mediazione fra regime militare e opposizione, che il 17 agosto scorso hanno siglato un accordo. Infine, non poteva mancare un accenno all’enorme numero di sfollati interni e di rifugiati ospitati in Etiopia da diversi paesi africani in conflitto. Quattro milioni in totale.
L’accademia di Oslo conclude prevenendo eventuali critiche: “Molte sfide restano insolute. Il conflitto etnico continua a crescere e ne abbiamo visto esempi problematici nelle settimane e mesi scorsi. Nessun dubbio sul fatto che alcuni penseranno che il premio di quest’anno è riconosciuto troppo presto. Il Comitato Norvegese del Nobel crede che è adesso che gli sforzi di Abiy Ahmed meritano riconoscimento e necessitano di incoraggiamento“.