Il decennale Cinquestelle – in celebrazione a Napoli – coincide con tutta una serie di nodi che stanno venendo al pettine nel Movimento. Ossia la fine della fase dilettantesca protrattasi sino al 2018, a seguito delle serissime responsabilità di governo che ormai gravano sugli spensierati “vaffatori” della politica come happening. Mentre dubbi volteggiano tipo avvoltoi sulle teste di quegli stessi che avevano scambiato il Parlamento per una scatoletta di tonno: crisi d’assestamento o definitivo spegnimento di un fuoco fatuo?
In particolare due sono i fattori decisivi attualmente in fibrillazione, tipici di qualsivoglia organizzazione: strategia e struttura. Tradotto dal managerialese al lessico politologico, cultura (valori declinati in categorie analitiche) e personale dirigente (selezione di risorse funzionali agli obiettivi dati).
Per quanto riguarda la dotazione di strumenti cognitivi adeguati alla decisione pubblica, le dure repliche dell’essere maggioranza spazzano via una quantità di puerili semplificazioni in larga misura tratte dal repertorio cabarettistico del profeta fondatore: uno vale uno, oltre la destra e la sinistra, il non-statuto, la fanta-tecnologia come soluzione dietro l’angolo (i flussi, washball, le scie, fogne progettate a due vie come i canali di evacuazione del corpo umano. Nell’altalena, delirio e banalità).
Del resto il compito della nurse Giuseppe Conte è proprio quello di far rimettere i piedi per terra ai Peter Pan che svolazzavano tra le nuvole, diventando adulti. E qui si arriva alla seconda criticità: il materiale umano, sinora raccattato con criteri opinabili; almeno quanto l’allungamento della vita a 120 anni grazie a un integratore alimentare di Adriano “sor Pampurio” Panzironi.
Che il Movimento abbia un gravissimo problema di qualità lo confermano odierni risentimenti aventiniani e defezioni, sempre da ambizioni frustrate e per ora al femminile. Il broncio per la mancata riconferma ministeriale di Barbara Lezzi, l’impiegata leccese dai capelli alla Presbitero, miracolata nel Conte I con la responsabilità per il Mezzogiorno, che se torna nel Salento dopo le promesse mendaci sul gasdotto Tap che la prendono a fucilate; lo stato confusionale di Gelsomina Vono, corsa verso il mucchietto selvaggio di Matteo Renzi come un Gabriele D’Annunzio che definiva il proprio trasformismo “andare verso la vita”. Ma pure tra i maschietti, altri presunti “duri e puri”, sembra che alcuni si preparino al salto della quaglia: innamoramento di Matteo Salvini per il suo eccezionale talento nella scelta dei tempi e delle mosse tattiche o ansia di ricandidarsi al terzo mandato?
Un livello di inadeguatezza che oltrepassa la folla dei peones e si incarna tragicamente ai massimi livelli della compagine. Il Louis Saint-Just della rivoluzione grillina Alessandro Di Battista esprime una sagacia d’analisi a livello fumetti, molto apprezzata da una base che raccatta di tutto: dai terrapiattisti ai fondamentalisti vegani, ai negazionisti a prescindere da quanto turberebbe le loro malcerte certezze.
Di converso l’ex gemello Luigi Di Maio, tenuto sotto schiaffo per un anno dal ricatto leghista di andare a elezioni, ora pensa di puntellare la propria leadership traballante arruolando una corte di fedelissimi nelle peggiori tradizioni di Prima Repubblica. So già che mi direte: ma gli altri sono peggio! Peggio o uguali non so, magari hanno una vaga infarinatura politica. E comunque non era da questa marmaglia di reduci dall’apparato Pci, ex supporter bossiani convertiti al culto dei rubli e dei rimborsi pubblici, veline e portaborse berlusconiani illuminati sulla via di Arcore che ci si attendeva la rifondazione della vita pubblica e delle sue classi dirigenti.
Chi dovrebbe sovrintendere detta operazione è il premier Giuseppe Conte. Un populista quanto lo sono io (ossia un liberale critico dell’attuale imbarbarimento delle classi dirigenti, ma non molto di più); di certo formatosi in ambienti d’establishment, dove ha potuto apprendere le buone maniere e tratti di semiologia della distinzione (almeno la pratica del completo blu, certo l’abito più versatile ma anche il più scontato e il meno estroso). Ce la farà? Lo scopriremo alle prossime scadenze elettorali, magari regionali.