Cos’hanno in comune Joker, il protagonista dell’omonimo film nei cinema in questi giorni, e Stephan Balliet, il killer neonazi di Halle? Cos’hanno in comune fra loro e con una lunga serie di persone: per citare solo le ultime in carne e ossa, l’assassino dei poliziotti di Trieste e l’accoltellatore di Manchester? Molte cose. Limitandoci a Joker e a Balliet, sono lupi solitari rifiutati dalla società, che non hanno mai reciso il cordone ombelicale con la madre e che, sino all’esplosione di violenza che darà loro il proverbiale quarto d’ora di celebrità hanno sfogato sui media – Joker nei cabaret e alla tv, Balliet sul web – le loro ossessioni.
Stavo per scrivere le loro private ossessioni: ma il punto è che non sono affatto private. Non si tratta solo di psicopatici, ma di sociopatici. A tenerli collegati con la società, però, non è più la famiglia, distrutta o assente, ma i media. Sono i media a renderli al contempo i recettori e i terminali di un disagio molto più grande di loro, non più solo personale ma sociale. Quando questo disagio, covato e represso da una vita, improvvisamente esplode, allora il vicino un po’ strano, il compagno di scuola taciturno, il collega sfuggente diventano improvvisamente criminali, pazzi, terroristi.
Ed è questo a renderli emblematici: il fatto di esprimere il nostro stesso risentimento, che sfogano con pretesti sempre più labili su vittime sempre più casuali. A volte agnelli sacrificali rituali come gli ebrei e gli arabi di Halle, altre volte bersagli non più colpevoli di altri, come i prepotenti della metropolitana di Gotham City. La donna del Joker, abbandonata dal padre della figlia, gli dice che ha fatto bene ad ammazzare le sue prime tre vittime, ma che ne manca ancora un milione.
La tentazione più pericolosa, in effetti, è immedesimarsi e attribuire la colpa della loro violenza alla società: all’amministrazione che taglia gli psicofarmaci al Joker, o alla polizia di Halle che neppure sapeva dove fosse la sinagoga. Per questo, nel film, si prova quasi un senso di liberazione quando il risentimento compresso dall’inizio esplode, e le strade di Gotham City si riempiono di vandali mascherati da clown come il Joker, e del fumo e delle fiamme prodotti dalle loro devastazioni. Poi si pensa che scene simili si sono ripetute, per settimane, nella Parigi attraversata dai gilet gialli. Sino a ieri ci saremmo consolati dicendo che lo spettacolo del male produce catarsi. Oggi, invece, temiamo solo che generi emulazione: negli Stati Uniti le sale dov’è uscito il film erano presidiate dalla polizia.
Aveva capito tutto Arthur Finkelstein, l’ebreo gay newyorkese che è stato lo spin doctor di Benjamin Netanyahu e di Viktor Orbán, quando in una delle sue rare dichiarazioni pubbliche, a Praga nel 2011, ha detto: “Io vado molto in giro per il mondo e vedo, dappertutto, un’enorme quantità di rabbia. Questo produrrà la richiesta di governi più forti e uomini più forti, che ‘facciano smettere quella gente'”. Il risentimento, in effetti, è il core business del marketing politico populista. Un tempo, gente come Donald Trump o Recep Erdogan sarebbe stata curata: oggi governa il mondo. E l’unica morale che possiamo trarne è la risata isterica del Joker, che scatta proprio quando non c’è più niente da ridere.