“Se ci avviciniamo di più, ci sparano“. Siamo a Kobane, a meno di 500 metri dal muro che separa il Kurdistan siriano dalla Turchia. Con noi c’è Bahri Mohammad, costretto a fuggire all’inizio del 2018 dal cantone di Afrin, dove viveva, a causa dell‘invasione dell’esercito di Ankara e dei suoi alleati, i gruppi che compongono il Free Syrian Army. La famiglia di Mohammad, come quella di Zeinab Bakr, che conosceremo poco più tardi, ha vissuto sulla propria pelle i bombardamenti dell’aviazione turca e, successivamente, le violenze del FSA. “Quando la casa dei nostri vicini è saltata in aria, uccidendoli, siamo scappati”, ci racconta lui. “Gli aggressori si stavano avvicinando via terra. Non c’era più niente da fare“. I racconti delle due famiglie coincidono con i report di Amnesty International e di Human Rights Watch, che hanno denunciato i soprusi e i crimini commessi dai miliziani jihadisti armati e supportati da Recep Tayyip Erdoğan. Le stesse milizie che in queste ore, dopo aver raggiunto il confine nord del Rojava attraverso il territorio turco, sono pronte a sferrare l’attacco insieme all’esercito di Ankara. “A Kurka, un villaggio vicino al nostro, hanno messo una corda intorno al collo di un uomo e lo hanno strangolato trascinandolo con l’auto – ricorda la figlia, Maryam – Una ragazza, invece, è stata spogliata e fatta a pezzi. Poi hanno pubblicato le foto. Sono come l’Isis, non c’è differenza”. Dopo la caduta di Afrin, ora Ankara sta puntando al resto del Kurdistan siriano, con i bombardamenti e l’invasione di terra che sono cominciati.

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