Le case di detenzione non potrebbero andare avanti senza di loro. Barbieri, cuochi, bibliotecari, addetti alla lavanderia e alle pulizie: nelle carceri italiane, stando ai dati del 2017, lavorano 18.404 detenuti, il 31,95% del totale. Sono dipendenti a tutti gli effetti dell’amministrazione penitenziaria, quindi dello Stato italiano, che nella Costituzione riconosce il fondamentale ruolo del lavoro per la rieducazione del condannato, ma che nei fatti produce discriminazioni: secondo l’Inps, ad esempio, chi ha dovuto interrompere il proprio periodo di lavoro quando era in carcere non ha diritto a ricevere l’indennità di disoccupazione. “Quello all’interno del carcere è qualificato come lavoro e va trattato come tale in tutti suoi aspetti, altrimenti stiamo creando un mondo differente”, dice Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, che ha promosso un ricorso per impugnare il rifiuto a veder riconosciuto il diritto alla Naspi. “Ricordiamoci sempre che la pena, nel nostro ordinamento, è privazione della libertà di movimento: tutto il resto è afflizione. Se non ci abituiamo a riconoscere tutti i diritti a chi lavora in carcere, comprese le prerogative del welfare, stiamo solo facendo del paternalismo”. E proprio riguardo a un altro strumento di welfare, il reddito di cittadinanza, è scoppiata di recente la polemica legata all’ex brigatista Federica Saraceni, che percepisce l’assegno mensile mentre si trova ai domiciliari per scontare una condanna a 21 anni e 6 mesi per l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona: “Il principio giuridico è lo stesso: il reddito di cittadinanza è una misura di sicurezza sociale, che potrebbe avere effetti positivi anche sulla riduzione della criminalità, e non deve avere eccezioni nella sua possibilità di fruizione. Alle vittime dobbiamo garantire tutto il riconoscimento necessario nel processo e attraverso i risarcimenti, ma non possiamo dare loro anche il peso morale di decidere dei diritti di tutti gli altri. È una questione di carattere universale ed è lo Stato che deve assumersi questa responsabilità”.
La prassi del mancato riconoscimento della Naspi a detenuti ed ex detenuti che abbiano lavorato per l’amministrazione penitenziaria è stata instaurata dall’Inps con il messaggio n.909 del 5 marzo 2019. “Il lavoro penitenziario è peculiare: già a partire dal nome della retribuzione, chiamata ancora mercede, c’è una differenziazione”, spiega Gennaro Santoro, avvocato dell’Associazione Antigone. “Il lavoro è pagato di meno e la capacità produttiva può essere diversa, ma la giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Cassazione ha ormai sancito da anni diritti come quello al riposo settimanale e annuale, ai benefici previdenziali e in generale a un trattamento che deve essere mutuato su quello della società libera. Anche la Naspi quindi, nel momento in cui c’è uno stato di disoccupazione involontaria, deve essere riconosciuta al detenuto”. Da qui la decisione dell’Associazione Antigone, che ha inviato all’Inps una lettera di protesta e insieme ai garanti regionali di Lazio, Umbria, Emilia Romagna e Toscana si è mossa per contestare una prassi ritenuta illegittima, elaborando un modello di ricorso gerarchico, a disposizione di tutti, per impugnare il rifiuto a veder riconosciuto il diritto alla Naspi.
Il rapporto tra lavoro e detenzione, oltre che nella Costituzione, che all’articolo 27 prevede come finalità della pena la rieducazione, è trattato dalla legge 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario. Lì si specifica che quello del lavoro in carcere è un diritto-dovere che deve essere privo di carattere afflittivo e svolgersi con modalità il più possibile analoghe a quelle utilizzate all’esterno del carcere. “ll punto fondamentale è considerare come primo elemento di qualificazione la condizione di lavoratore e di persona bisognosa di reddito, e non di detenuto”, ribadisce Gonnella. “Trattare i detenuti al pari delle persone libere dal punto di vista dei diritti fondamentali è un principio di carattere universale che può anche avere un effetto positivo sul loro percorso rieducativo: in questo modo infatti li sottraiamo a quella sindrome di vittimizzazione con cui possono giustificare i loro comportamenti illegali, per il fatto di essere trattati in maniera diversa. Non gli diamo albi, ma offriamo a tutti gli stessi diritti”. E tra questi diritti c’è anche quello di avere a disposizione un reddito, o un sussidio quando questo viene a mancare: “Escludere quote di persone da misure anche minime di reddito significa dire che il loro destino è essere povere. E chi non ha alle spalle una famiglia in grado di aiutare, tornerà con ogni probabilità a commettere reati una volta uscito dal carcere. Le leggi non si valutano ascoltando il parere di chi si sente offeso perché vittima, è lo Stato che deve assumersi la responsabilità della rieducazione”.