Dissoluzione dello Stato o riaffermazione dello Stato di diritto? Di questo si discuterà nelle prossime settimane dopo la pubblicazione della sentenza che ha chiuso el procés, il giudizio penale istruito dal Tribunal Supremo di Madrid, massimo organo del sistema giudiziario, contro 12 leader dell’indipendentismo catalano. La sentenza più importante nella quarantennale storia della democrazia spagnola.
Barcellona in queste ore è una città blindata, carnefice e vittima delle aspirazioni politiche abnormi di alcuni e delle rivendicazioni sorde di altri. È una città che ha rischiato il salto nel vuoto: oggi non è uscita dal gorgo, non sa qualche destino né quale forma avrà.
La comunità nazionale sembra disgregata, ci sono dati che ci danno la cifra della evidente frattura sociale: i 1800 poliziotti antisommossa dispiegati in Catalogna già nell’attesa della sentenza oppure la nota divulgata dai Mossos d’esquadra, la polizia regionale, per chiarire che si stava organizzando da giorni per fronteggiare le reazioni di strada contro una sentenza annunciata come dura, rivelatasi pesantissima, nei confronti della cupola del separatismo. Precisazione non di poco conto se si pensa che durante il referendum sull’indipendenza del 1 ottobre 2017 – seguito poche settimane dopo dalla Dui (la Dichiarazione unilaterale d’indipendenza) – sfrontati atti politici considerati illegali dal Tribunale Costituzionale, i Mossos furono accusati di poca fedeltà verso le istituzioni entrando più volte in aperto conflitto, quasi fisico, con le forze dell’ordine statuali.
Tutta la questione catalana segna il declino dello Stato. Lo Stato centrale, che persegue le autorità periferiche che appendono sugli edifici pubblici lazos amarillos, i nastri gialli simbolo della solidarietà con i politici separatisti in carcerazione preventiva, e la Generalitat, sede del governo regionale, che da anni appare come un organo a sé stante, del tutto scollegato dal resto della nazione.
In Catalogna sono divisi i sindacati, le associazioni di categoria, gli imprenditori. E ci si divide nei condomini, sui luoghi di lavoro, nelle scuole, sul sistema linguistico da adottare. E’ difficile pensare che le 493 pagine della sentenza diano una scossa. La politica non trova soluzioni, anzi, non le conviene: troppi partiti preferiscono navigare a vista, in acque agitate alimentano rendite di potere e facili consensi. La base sociale sembra adagiarsi su un terreno che si nutre di contrapposizioni, di un conflitto oramai permanente, anche se la Diada – la festa indipendentista – dello scorso settembre ha registrato un visibile calo di partecipazione.
Nuove sigle spuntano all’improvviso, vecchi posizionamenti si rigenerano costantemente. Oggi a focalizzare l’attenzione sulla “rivolta” verso quella che è definita “sentenza politica” sono Tsunami democratico e i Cdr (i Comités de Defensa de la República), formazione antagonista che nelle scorse ore ha lanciato un messaggio chiaro: “la calle será nuestra casa a partir de ahora”.
La sentenza è già firme, ossia con valore di giudicato, nel momento in cui è notificata alle parti verrà sicuramente impugnata innanzi al Tribunale Costituzionale per violazione di principi contenuti nella Carta fondamentale dello Stato. Impugnazione imprescindibile per poter poi arrivare al vero obiettivo dei leader indipendentisti: portare la causa catalana innanzi alla giustizia europea. La Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo sarà sicura protagonista negli anni a venire.
I ripetuti appelli dei leader separatisti, Oriol Junqueras e Carles Puigdemont, a Bruxelles, sede del Parlamento europeo, non hanno avuto ascolto: troppo rischioso per l’Unione europea percorrere il terreno scivoloso delle questioni nazionaliste.
Sarà affidato a un ricorso giudiziario a Strasburgo, sede dell’organo giudiziario sovranazionale, la discussione sul separatismo, sulle sue ragioni e sulla libertà di espressione. Si sa, nelle aule di giustizia si dibatte su tecnicismi, spesso su astrazioni giuridiche, non sulla scienza del governo dello stato. Anche in Europa un altro segnale del fallimento della politica.