C’è qualcosa di giuridicamente “stonato” nella sentenza con cui la Grand Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha spiegato all’Italia che l’ergastolo ostativo va rivisto. E che prescinde dal caso specifico trattato. Ma forse, prima, c’è anche qualcosa di semanticamente fuorviante, e quindi di razionalmente sballato, nella locuzione “ergastolo ostativo”. I due termini costituiscono un magnifico esempio di tautologia: una figura retorica con la quale si usano vocaboli ridondanti rispetto al significato da veicolare. Un ergastolo dovrebbe essere “ostativo” di default: l’aggettivo è superfluo.
E allora perché l’ergastolo ostativo è stato introdotto nel nostro ordinamento? Perché, in realtà, l’ergastolo in Italia non è mai stato davvero un “ergastolo”: il detenuto può temperare la sua pena con permessi premio, lavoro esterno, misure alternative alla reclusione, fino addirittura a uscire anzitempo e per sempre dal carcere. Cosicché, nei primi anni Novanta, dopo le stragi di mafia e la morte di Falcone e Borsellino, venne modificato l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario: niente benefici né misure alternative per crimini particolarmente gravi connessi a mafia e terrorismo, salvo che vi fosse un ravvedimento palese del reo sotto forma di collaborazione con l’autorità giudiziaria (fenomeno del cosiddetto “pentitismo”).
Ora, la sentenza della Grand Chambre è un grimaldello per disinnescare la gravità, ultimativa e non negoziabile né rivedibile, della pena “terminale” per eccellenza: l’ergastolo “ostativo”, appunto. Però, essa ci offre anche il destro per una riflessione più ampia e profonda sul tema, che potrebbe essere declinata, più o meno, con il seguente quesito: ha ancora senso l’ergastolo in quanto tale? Cioè una punizione che, per natura, è ostativa e quindi non necessitante di un aggettivo a qualificarne e rimarcarne la sostanza? Ha senso almeno nei confronti di chi non palesa una qualche resipiscenza attraverso la collaborazione con il sistema giudiziario? Per la cosiddetta Corte dei cosiddetti diritti, no. Ma forse la “ragione” sta da un’altra parte.
L’ergastolo ostativo potrebbe avere ancora un senso nella misura in cui si vogliano mantenere delle pene estreme come punizione di atti estremamente gravi. E allora perché la Corte ha detto no? Perché – a dispetto del suo rappresentare il più alto consesso europeo in materia di giustizia – essa ha frainteso il concetto di giustizia con quello di clemenza.
Siamo tutti figli di Beccaria, d’accordo. Ciononostante, sappiamo che la filosofia sui delitti e sulle pene di cui discorreva il grande giurista lombardo non può né deve “tendere” la categoria della giustizia fino a spezzarla.
Essere giusti può anche implicare, in determinati casi, dimostrarsi clementi. Ma la Giustizia non può convertirsi in sistematica clemenza. Non al punto da negare la possibilità effettiva di una pena così dura e irrevocabile come il carcere a vita e senza sconti. C’è un’altra parola importante, trascurata dai giudici dell’Alta Corte, e fa rima con clemenza: deterrenza. Solo che essa viene troppo spesso dimenticata in nome di un principio, pur sacrosanto, quale il risvolto rieducativo della sanzione.
Lo scrittore italiano Giuseppe Pontiggia sintetizzò così la faccenda: “Penso che questa società, indebolendo la certezza della pena, tolga alla giustizia una delle sue funzioni più importanti, cioè quella di deterrente: molte persone, sicure dell’impunità, commettono reati”.
Ma non è neppure la deterrenza il fattore dirimente: ci sono delitti così disumani (e non solo quelli connessi a mafia e terrorismo) da meritare una pena la quale sfiori, ma non oltrepassi, i confini stessi dell’umanità. Quella pena non può essere la morte, ma deve essere l’ergastolo, se necessario ostativo. Quantomeno per certi crimini particolarmente odiosi e per coloro che non dimostrano il benché minimo segno di pentimento e la benché minima volontà di cooperazione.
E non è neppure corretto affermare, come suggeriscono i giudici europei, che negare i “benefici penitenziari” sia in assoluto “incompatibile con la dignità umana”. Può essere vero anche il contrario: solo una pena quasi intollerabile (come la privazione ad vitam del bene più prezioso, vita a parte, e cioè la libertà) è sufficiente, in taluni casi, a pagare il fio e a rendere giustizia, in modo “degno”, alle vittime.
Una vita sotto chiave è terribile, ma lo è altrettanto, anzi di più, la vita rubata dei tanti bersagli innocenti di certi efferati delitti. E parliamo sia di chi la sua vita l’ha persa, sia di chi (madri, padri, figli e fratelli) deve “scontare” un’esistenza intera nel pianto e nel dolore provocato dal male altrui; senza poter fruire di alcun “beneficio penitenziario”. Ma oggi la sensibilità corrente, ai più alti livelli e non solo giudiziari, coltiva un’inquietante attenzione per Caino che cela, temiamo, un’insofferenza diffusa per Abele. E così la (malintesa) clemenza rischia di soppiantare la (mai compresa) giustizia.
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