Dopo un lungo braccio di ferro con le autorità cinesi, Apple nei giorni scorsi ha deciso di rimuovere dall’App Store un’app utilizzata da cittadini e manifestanti di Hong Kong per tracciare e visualizzare su una mappa della città una serie di informazioni sui posti di blocco, le manifestazioni, gli incidenti e le presenze di forze dell’ordine. Secondo le autorità cinesi l’app sarebbe stata a più riprese utilizzata dai manifestanti per compiere atti vandalici nelle zone meno presidiate dalla polizia o per attaccare i poliziotti in aree nelle quali sarebbe stato più difficile avere rinforzi in tempo utile.

E pazienza se l’app consentiva anche – e anzi soprattutto – ai manifestanti di ritrovarsi in piazza per far sentire più forte la loro voce e ai cittadini di evitare manifestazioni e tafferugli andando a scuola o al lavoro.

Negli stessi giorni, dall’altra parte del mondo, il Senatore repubblicano Marco Rubio ha chiesto al Governo americano di aprire un’inchiesta contro Tik Tok – l’app di condivisione di video che sta spopolando in tutto il mondo, specie tra i più giovani – sostenendo che sarebbe stata usata per “censurare contenuti e mettere a tacere l’aperta discussione su argomenti ritenuti sensibili dal governo cinese e dal Partito comunista”, ad esempio le proteste di Hong Kong.

Tik Tok, naturalmente, smentisce ma il macigno ormai è stato lanciato nello stagno. Le due vicende raccontano entrambe la stessa preoccupante verità: esistono ormai – e sono sempre più frequenti – situazioni nelle quali i governi chiedono e i fornitori di servizi online eseguono ogni genere di intervento in danno della libertà di informazione o di quella di fare impresa. E le storie di questi giorni che hanno per protagonista il governo di Pechino sono solo la punta dell’iceberg, perché richieste analoghe le ricevono, dai governi di ogni parte del mondo e da anni, anche Facebook, Google, Twitter e gli altri giganti del web.

Il principio è sempre e ovunque più o meno lo stesso: il fine giustifica i mezzi. E il modo più veloce e efficace ai tempi di Internet per ottenere che un contenuto, un video o un’app che si ritengono illeciti – per una qualsiasi ragione – scompaiano dal web naturalmente non è chiedere a un giudice o a un’autorità di giudicare e quindi eventualmente ordinarne la rimozione, ma chiederlo direttamente al gestore del servizio in questione, magari facendo pesare il fatto che sì, è il governo, quello stesso governo che stabilisce le tasse e le regole che chiunque faccia impresa in un determinato Paese deve rispettare se vuole continuare a fare impresa.

È una tendenza preoccupante perché mina alla radice il principio della separazione dei poteri sul quale, almeno da quando Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, nel 1748 lo teorizzò, si fonda ogni democrazia: “Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti – scriveva Montesquieu – perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere”.

Ed è per questo che Montesquieu identifica i tre diversi poteri dello Stato, quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario: “In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o per qualche tempo, e corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo, punisce i delitti o giudica le liti dei privati”, perché “una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica”.

E quando un governo, responsabile del potere esecutivo, si sostituisce ai giudici e “chiede”, facendo valere la propria autorità, a un soggetto privato di cessare la distribuzione di un’app o di rimuovere un contenuto, il rischio che la democrazia degeneri in tirannia è, inesorabilmente, in agguato. Naturalmente è difficile puntare l’indice contro Apple che cede alle pressioni di Pechino o contro qualsiasi altro fornitore di servizi privati che, per semplice quieto vivere o interesse economico, si piega alle richieste di un governo.

Ma è la comunità internazionale – perché questa è la dimensione del fenomeno e, di conseguenza, l’unica nella quale il problema può essere affrontato e risolto – che dovrebbe darsi una regola universale secondo la quale nessun contenuto, di qualsiasi natura esso sia, salvo al limite casi eccezionali, può esser rimosso dallo spazio pubblico online se non in forza di un ordine di un giudice o di un’autorità amministrativa indipendente all’esito di un giusto processo.

Se non si riesce a affermare questo principio, nello spazio di una manciata di anni le nostre democrazie saranno inesorabilmente in pericolo perché siamo solo all’inizio. Con l’internet delle Cose che avanza, la stessa dinamica usata dal governo di Pechino per “chiedere” a Apple di rimuovere un’app dal proprio store è destinata a affermarsi in ambiti sempre più ampi della nostra vita. Dobbiamo decidere in che mondo vogliamo vivere e dobbiamo farlo ora, senza rinviare ancora.

Vogliamo vivere in un mondo governato dal principio secondo il quale il fine giustifica comunque i mezzi, e quindi non importa chi assume né chi esegue una decisione – purché ciò avvenga il prima possibile – o in un mondo nel quale siamo disponibili ad accettare – magari cercando di contenerle sempre di più – le lentezze e imperfezioni dei nostri sistemi giudiziari pur di poter contare tutti e sempre su un giusto processo, celebrato in contraddittorio e davanti a un giudice terzo e imparziale?

Non c’è più tempo. La tecnogiustizia privata sta conquistando la nostra società e, quel che è peggio, sembra affascinare e ricevere il plauso dei più e soprattutto dei governi che sembrano essersi convinti che è la soluzione più semplice per risolvere problemi complessi. E quindi pazienza se travolge diritti e libertà nei quali il mondo si riconosce da secoli.

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