Parlo poco del mio primo lavoro, il mestiere di insegnare. Un po’ perché tengo separati i piani della professione e dell’attivismo politico. Un po’ perché fa parte di quel “personale” che non ammette sovrapposizioni o intrusioni di sorta. Mantenere separati questi piani è un’esigenza interiore, ma anche un tributo alla deontologia. Oggi però farò un’eccezione e parlerò dell’essere insegnanti.
Si tratta, in verità, di un lavoro molto duro. Perché di fronte a te, in un’aula di venti ragazzi/e, hai venti anime a cui dover rendere conto. A cui dare risposte. Individui con diverse speranze, caratteri (a volte pure molto difficili), modi di fare e di essere. E molto altro ancora ci sarebbe da dire. È un mestiere difficile perché tu sei uno solo, alla fine. Parli a venti persone insieme, ma non puoi bastare a tutti e tutte, indifferentemente e nello stesso istante.
Per questioni apparentemente banali e di routine: c’è chi non ha capito, chi se ne frega, chi ha bisogno di te più degli altri, per quella regola grammaticale. Poi c’è chi vuole di più, chi ha paura. C’è chi ha bisogno di essere toccato, nel profondo. Di essere scosso nella coscienza. Di essere accompagnato nelle incertezze. Il tuo “io” si frange – ma al tempo spesso si moltiplica – per tutte le persone a cui insegni. Pirandello avrebbe molto da dire, a proposito. E pure Freud. Per chi ci crede, forse anche Dio. Ma sto divagando.
Tornando al difficile mestiere di “essere prof”, se ci mettiamo tutto il resto, tra genitori altrettanto difficili (a volte), le mille incombenze (tra formazione, consigli di classe, collegi docenti, scrutini e ricevimenti) e qualche collega o dirigente con cui non è sempre facile – e men che mai in modo automatico – andare avanti, la situazione si complica non poco. Eppure, alla fine, può bastare un piccolo gesto: da un fiore lasciato sul registro a una lettera in cui qualcuno ti dice che per lui/lei hai fatto la differenza. Questo, se vogliamo, ti ripaga di molte difficoltà e sofferenze.
È questo il mestiere di insegnare, nel bene e nel male. È impegnativo, a volte un lavoro ingrato – economicamente parlando, soprattutto – ma umanamente strategico. Perché molto spesso sarai tu, con una parola detta al momento giusto, a modificare la percezione del mondo e della realtà per una di quelle venti persone che ti stanno davanti (e se fai questo lavoro, sai che non saranno mai solo venti).
Sono le regole del gioco. Un “potere” così fondamentale – a scanso di equivoci, intendo il termine in senso verbale, nell’accezione di permettere alle persone di essere ciò che vogliono un domani (già li vedo i no-gender, a cui prudono le mani) – che ti fa capire davvero quanto tu possa “esserci” nella vita di coloro che un tempo erano i tuoi allievi e che diverranno, con le diversità di cui sono portatori, la società di domani.
Scrivo tutto questo perché entrare in aula è sempre una bella sfida. Ma anche un’opportunità di crescita personale. Perché di fronte a quaranta occhi che ti guardano e a quaranta orecchie che ti ascoltano, sei solo uno, ma non sei mai da solo. Entri in contatto con il tuo io più vero, anche se non vuoi o non te ne accorgi.
Scrivo tutto questo perché la mia amica Giovanna Cristina Vivinetto non ha avuto l’occasione di mettersi alla prova, nell’aula in cui è andata a lavorare fino a qualche giorno fa. Non glielo hanno permesso. È stata allontanata dalla cattedra che aveva ottenuto. È stata licenziata perché, come lei riferisce, è una donna transgender. Sarebbe buffo, se non fosse tragico: ciò che c’è scritto su una coppia cromosomica o ciò che si presume ci sia laggiù, sotto i jeans, per qualcuno è molto più importante dello spettro di possibilità di cui siamo capaci anche come insegnanti. Sembra essere più importante di quella parola possibile – aggettivo che si lega strettamente a “potere”, a ben guardare – che può fare (e che fa) la differenza.
La scuola, come istituzione, ha il compito di costruire il futuro. E dovrebbe essere luogo di accoglienza e inclusione. È triste invece svegliarsi in un giorno d’autunno e sapere che qualche preside, forse spaventato da quelle differenze che aveva il compito di abbracciare, si sia invece limitato a eradicare ciò che considera “corpo estraneo”. Una scuola che esclude e discrimina, tradisce la sua missione, il suo scopo. La sua stessa ragion d’essere.
In questa pagina, che raccoglie riflessioni sul tempo presente, lascio il mio abbraccio per Giovanna. Sono fiducioso che arriverà il tempo di pronunciare quella parola che creerà il solco tra un prima e un dopo nella vita di qualcuno/a. Il tempo in cui il suo guizzo vitale, alleato del sapere e della sua umanità, potrà essere depositato nelle coscienze di chi avrà la fortuna di incontrarla. In aula, quanto prima e lontano da ogni ipocrisia.