Perché Luigi Di Maio, firmando l’atto interno alla Farnesina per bloccare le vendite future di armi alla Turchia, nello stesso atto ha avviato un’istruttoria sui contratti in essere, senza prendere decisioni né in un senso, né in un altro? Ovvero, senza bloccarli, ma senza neanche decidere di farli andare avanti? La risposta sta da una parte nei rapporti della Turchia con il nostro paese (che non solo è un alleato Nato, ma pure un partner commerciale con un interscambio di circa 20 miliardi di euro l’anno), ma dall’altra nella legge 185 del 1990.
Non a caso nel Pd, provvedimento alla mano, c’è chi reputa che i tempi per una decisione da parte della Farnesina siano già troppo lunghi. E il Nazareno si riserva di intervenire più in là, chiedendo spiegazioni al Ministro su come intende procedere.
La legge all’articolo 1 comma 6 recita così: “L’esportazione e il transito di materiali di armamento sono vietati”. E segue un elenco di 5 divieti. Dei quali, 4 possono essere riferiti anche all’attacco di Erdogan alla Siria. Dunque (al capo a) tale vendita è vietata ai “Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei Ministri, da adottare previo parere delle Camere”. Ora, l’articolo 51 ribadisce il “diritto naturale” alla legittima difesa individuale o collettiva, nel caso in cui si verifichi un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite. Difficile definire quella della Turchia una guerra difensiva.
Ancora, il divieto riguarda “paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione” (capo b). Per capirci, quello secondo il quale l’“Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
E poi, si fa riferimento ai “Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Ue o del Consiglio d’Europa” (punto d). Le denunce a carico della Turchia in tal senso si sprecano.
Infine (al punto e), il divieto riguarda “i Paesi che destinino al proprio bilancio militare risorse eccedenti le esigenze di difesa del paese”.
Dunque, l’interrogativo è d’obbligo: quanto durerà l’istruttoria di Di Maio? Quel che è certo è che Di Maio sta ragionando anche su come poter offrire compensazioni alle aziende che si troverebbero a non poter più vendere armi alla Turchia, con un danno economico presente e futuro non di poco conto. Ma come ne uscirà il nostro ministro degli Esteri? Cercherà di scavare in alcune sacche di ambiguità contenute nella legge per non sospendere i contratti in corso? O semplicemente, sta prendendo tempo?