Il regista gestisce la dinamicità della suspense alla Hitchcock, lasciandoci cullare dentro alla tragedia del ricordo, immersi in queste ombre del passato che devono filtrare dentro ad un presente brumoso e autunnale fatto di dondolanti crocifissi al collo e sontuosi paramenti di cardinali
Grazie a Dio c’è Francois Ozon. Lo scandalo della pedofilia dentro la Chiesa cattolica, in questo caso francese, anzi lionese, con schizzi morali e responsabilità politica direttamente sul Vaticano, rivive impietoso e devastante in un apparente piccolo film antispettacolare fatto di campi e controcampi, dialoghi fitti, primi piani. Grazie a Dio, appunto, è il titolo. Ma anche lapsus freudiano di monsignor Barbarin che, dopo anni di accuse verso il sottoposto padre Preynat, durante una conferenza stampa a margine dell’imminente processo al prete imputato, si lascia sfuggire un “grazie a Dio, i reati sono prescritti”.
Sta tutto in questa tattica distanziante e persuasiva del clero cattolico, preposta a coprire la melma che esonda dai piani bassi delle violenze consumate in parrocchia, a disegnare lo zenit del film di Ozon, autore abbarbicato da decenni tra i tormenti interiori del singolo in attesa che prorompano in scena. Anche qui il regista francese, al suo ventesimo film, cesella una partitura armonica di disvelamento degli orrori suddivisa in quattro movimenti di mezz’ora l’uno. Nel primo è l’attore feticcio Melvil Popaud, qui Alexandre, un dirigente bancario cattolico praticante con moglie e cinque figli, a incrinare in solitaria l’omertà attorno a padre Preynat ma senza troppo successo che non vada oltre la sua personale rabbia. Nella seconda mezz’ora il testimone passa senza conclamati scarti narrativi ad un’altra vittima, Francois, l’immenso Denis Menochet visto in Bastardi senza gloria e L’affido, altro signore molestato da bambino in campeggio da Preynat, oggi sposato e padre di tre figli (e con diversi problemini tra lui, il fratello e madre proprio a causa di ciò che accadde all’epoca) che una volta fatto riemergere il ricordo non va tanto per il sottile. Terzo movimento, altra mezz’ora, è l’apice della battaglia legale e della denuncia penale che i due assieme ad un’altra decina di vittime riescono a imporre a stampa, opinione pubblica, web e pure al cospetto della Chiesa almeno francese.
La quarta mezz’ora invece, quella con cui si chiude il film è affidata a Emmanuel (Swann Alraud) un’altra vittima, un po’ più giovane, quella per la quale, se la denuncia andasse in porto, in termini temporali il caso non sarebbe prescritto come quello di Francois e Alexandre. Solo che Emmanuel, tra tutte le vittime del prete pedofilo, sembra essere quella messa psicologicamente e umanamente in condizioni peggiori. In questo lento affermarsi di una conclamata verità, Ozon gestisce la dinamicità della suspense alla Hitchcock, lasciandoci cullare dentro alla tragedia del ricordo, immersi in queste ombre del passato che devono filtrare dentro ad un presente brumoso e autunnale fatto di dondolanti crocifissi al collo e sontuosi paramenti di cardinali. La tessitura del racconto è invece presto composta da lettere cartacee, email, telefonate, missive lette con voce off dai singoli protagonisti sulle dolorose vicende passate ma anche sui tentativi vani di riconciliazione.
Grazie a Dio – presentato al festival di Berlino – è infine caratterizzato da un approccio di sguardo per il quale più che il j’accuse clamoroso a svellere il tono generale del film, vale maggiormente lo scrutare impercettibile dei movimenti del viso, degli occhi, della bocca dei ragazzini/uomini violentati, del carnefice e dei loro protettori. Come se solo dentro all’inquadratura di Ozon storia e vittime potessero trovare un po’ di requie e fuori, oltre i bordi del quadro, continuasse solo infinito dolore e caos.