“La verità vive” è la frase scritta sulla lapide marmorea di Rita Atria, la giovane testimone di giustizia che si uccise a soli 17 anni, per disperazione, solitudine e paura, dopo la morte del giudice Paolo Borsellino che l’aveva protetta e le aveva dato la speranza di una nuova vita lontano dalla mafia. “La verità vive” è la frase che torna in mente oggi, a seguito della notizia che Piera Aiello, sua cognata, oggi deputata, anche lei testimone di giustizia e per 27 anni “invisibile” è stata inserita nella lista “most powerfull women” che ogni anno viene stilata dalla Bbc, che indica le 100 donne più influenti al mondo. Fra quelle cento donne l’unica italiana è proprio Piera Aiello.
In Italia è conosciuta come la “candidata fantasma”, poiché alle ultime politiche ha partecipato con la faccia coperta da un velo a causa delle minacce subite dalla mafia. Nel 2018, dopo 27 anni vissuti sotto copertura, nascondendo la sua vera identità, ha mostrato il suo volto, solo dopo aver conquistato un seggio a Montecitorio. Oggi continua la sua lotta alla mafia, a fianco dei testimoni di giustizia ed è componente della Commissione nazionale antimafia. Il suo cammino è stato lungo e difficile ma la verità ha vinto e vive nel suo impegno, insieme al ricordo della cognata, Rita.
La sua storia inizia a Partanna, nel trapanese. Piera aveva solo 14 anni quando conobbe Nicolò Atria e divenne cognata di Rita. Fu scelta da suo suocero e non da suo marito, come lei stessa ha avuto modo di raccontare. Ma la famiglia di Nicola Atria era mafiosa e così fra i due cominciarono subito i contrasti. Il 18 novembre 1985, a pochi giorni dal matrimonio, il suocero, don Vito Atria, venne ucciso e presto, proprio davanti ai suoi occhi, fu ucciso anche suo marito che voleva vendicare la morte del padre. Fu l’inizio di un periodo buio e faticoso.
La svolta fu segnata dall’incontro con il giudice Paolo Borsellino. Piera divenne testimone di giustizia ma dovette lasciare la Sicilia. Si trasferì a Roma, sotto protezione, e con lei anche sua cognata, Rita, pure lei collaborò con la giustizia, raccontando tutto quello che sapeva della sua famiglia. Insieme queste due donne hanno rappresentato il volto pulito della Sicilia, di quella terra in quel momento infestata dalla mafia che mostrò tutta la sua violenza. Insieme furono trasferite a Roma, per ricominciare una nuova vita, nella speranza di poter cambiare le cose. Ma dopo la morte di Borsellino, Rita si sentì sola. Si tolse la vita. Tornò in Sicilia in una bara bianca e al suo funerale non partecipò nessuno dei familiari. La madre, anzi, andò al cimitero e distrusse quella lapide scelta proprio da Piera con la scritta “la verità vive”.
Dopo anni vissuti senza la sua identità e senza nemmeno una foto insieme alla sua famiglia, Piera Aiello torna a dimostrare che la lotta alla mafia paga sempre. Anche se il percorso è difficile, anche se è doloroso, anche se bisogna denunciare i propri familiari, le persone che sono più vicine. E le donne questo percorso lo hanno iniziato da molto tempo, in Sicilia, come in Calabria, perché una donna è anche madre e nessuna madre può accettare – come invece fece la madre di Rita Atria – che il proprio figlio viva nel dolore, nella paura, circondato da morti ammazzati e guidato dal senso di vendetta. Piera Aiello è stata “invisibile”, ha vissuto in prima persona esperienze durissime, ma è riuscita a dimostrare che, sì, è vero, “la verità vive”. Una risposta anche a quanti hanno messo in discussione la sua nomina, facendo ricorso al fatto che si era candidata con un nome “inesistente”. Ma il suo.
Perché lei è Piera Aiello, la donna di cui tutti ricordano il coraggio di allora, quello di oggi e quello che sicuramente avrà in futuro. Il volto di una antimafia sana e non fatta solo di slogan. Ed ora è un fatto acclarato anche dal resto del mondo. Questo riconoscimento, insieme alla sua storia, sono un messaggio di fede e di speranza: la mafia si può contrastare e le donne hanno la forza di fare la propria parte.