Giusto poco fa, il 16 ottobre dell’anno 2019, Donald J. Trump ha doppiato la boa dei suoi mille giorni alla Casa Bianca. E lo ha prevedibilmente fatto da par suo, polverizzando record e consolidando primati in ere previe considerati irraggiungibili. Non è riuscito, è vero, a toccare la vetta delle 14mila menzogne, come molti degli specialisti in fact-checking avevano troppo frettolosamente pronosticato durante l’estate. Ma ben altre – e ben più storiche – sono le barriere da lui infrante in questi quasi tre anni di presidenza. E su tutte una – quella che separa la realtà dalla satira – da lui oltrepassata con il classico “bang” proprio nel giorno del suo millesimo anniversario.

Per la cronaca: stando al Washington Post, giovedì 10 ottobre Donald Trump ancora era fermo, in materia di falsità, a quota 13.435; e assai improbabile è che in una settimana – a tutto c’è un limite – sia riuscito a colpire per altre 565 volte (80,7 volte al giorno). Poco male, visto che in ogni caso, ben al di là di traguardi numerici artificialmente prestabiliti, il presidente in carica ha – tra balle spaziali, frottole, calunnie, panzane varie, scempiaggini, semplici inesattezze e fandonie d’ogni colore – mentito a un inimmaginabile ritmo di quasi 14 bugie quotidiane, collocandosi ad anni luce di distanza da tutti i suoi 44 predecessori, nessuno escluso.

Dal numero uno, fermo a una miseranda “quota zero” – vale a dire: quel George Washington che, stando al mito, di sé diceva: I can’t tell a lie, “non so dire una bugia” – ai molto più recenti Tricky Dicky Richard Nixon (numero 37) e Slick Willy Bill Clinton (numero 42) entrambi, come Trump, colpiti da procedimenti di impeachment; ed entrambi, sia pur in modi diversi, notoriamente in pessime relazioni con quella cosa che va sotto il nome di verità.

Con quale nuovo primato, dunque, Donald J. Trump ha festeggiato la sua millesima, storica alba in quel di 1600 Pennsylvania Avenue? Più in concreto: in che modo è riuscito a trasfigurarsi -superando la barriera di cui sopra – nella rappresentazione satirica di se stesso? Lo ha fatto attraverso la molto ufficiale e pubblica lettera da lui scritta, mercoledì scorso – una paginetta appena, ma di grande intensità – al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.

E molti, va subito aggiunto, ci sono cascati come allocchi. Sebbene originalmente diffuso da Fox News – la più fanaticamente trumpista delle reti televisive – il contenuto della missiva era stato infatti dai più accolto originalmente con molto sospetto o, addirittura, con la certezza che si trattasse (come poteva essere altrimenti?) d’una burlesca imitazione del non propriamente alato stile letterario del presidente in carica. Troppo esagerata, troppo ridicola per esser vera, troppo poco presidenziale – poco anche per la “presidenzialità” in questi anni deturpata dalla metamorfosi del trumpismo – per essere accettata, nonostante la fonte, senza verifiche e contro-verifiche.

Era invece, quella lettera, vera, verissima. Diventato la caricatura di se stesso – la caricatura d’una caricatura, per molti aspetti – Trump aveva davvero scritto (e indubitabilmente scritto di suo pugno, data l’unicità dei concetti e dello stile) quella che a prima vista (e anche a seconda, terza e quarta vista) appariva come un grottesco miscuglio tra il classico linguaggio mafioso (nutrito da minacciosi inviti a “pensare alla salute”) e l’increscioso bullismo d’un borioso adolescente ancora nel pieno di quella che un tempo si chiamava “l’età della stupidera”.

Caro presidente, diceva in sostanza la lettera (qui per il testo completo in inglese), facciamo un patto: tu eviti di massacrare migliaia di persone e io evito di distruggere l’economia turca (cosa che sai benissimo posso fare perché già l’ho fatto – concetto questo che Trump aveva, giorni prima, molto opportunamente chiarito via Twitter). Ti mando per questo un curdo amico mio, il generale Mazlum, disposto a negoziare e a concessioni mai fatte prima. Fai dunque “la cosa giusta”, non deludere il mondo se vuoi che la Storia ti giudichi favorevolmente. E soprattutto ricordati che io ti sto guardando “come un diavolo”, giusto nel caso “qualcosa di male” dovesse accadere. Evita pertanto di “fare il duro e di fare l’idiota”, perché con il sottoscritto non attacca. Ti richiamerò presto…

Questo ha scritto Donald J. Trump. È lecito, anzi è inevitabile, giunti fin qui, chiedersi due cose. La prima: che ne sarà – ora che per l’appunto la realtà ha superato la loro arte – delle decine di comici che, in questi due anni, hanno campato sulla scimmiottatura d’un presidente che ha preso a scimmiottare se stesso? La seconda: quali saranno gli effetti d’una lettera la cui tragica ridicolaggine va, in realtà, ben oltre i suoi toni pueril-mafiosi?

E la risposta non può, in questo caso, che essere presumibilmente nessuno, visto che il destinatario della missiva (dal medesimo già peraltro “cestinata” come ufficialmente comunicato), “la cosa giusta” non solo l’ha già fatta in tutta tranquillità, massacrando migliaia di persone, ma l’ha fatta (e continuerà a farla) con l’ovvio, inequivocabile incoraggiamento del gran bullo che, dopo avergli dato contro ogni logica e ogni decenza “semaforo verde”, oggi lo sta “guardando come un diavolo”.

Il qualcosa di male che potrebbe accadere – e che Trump è pronto a giudicare dall’alto della sua “grande e impareggiabile saggezza”, come sottolineato in un recente tweet – è già a tutti gli effetti accaduto. Ed è accaduto con l’aperta complicità del presidente Usa. Trump, del resto, in questi giorni non ha perso occasione per dirlo e ripeterlo. La guerra tra turchi e curdi riguarda solo turchi e curdi. E altrimenti non potrebbe essere, visto i curdi – che “angeli non sono” – ben si sono guardati dall’aiutare gli Usa quando, nel giugno del 44, sbarcarono in Normandia.

Trump ha ragione. È la Storia a condannare i curdi. Anche perché, ben prima della Seconda Guerra mondiale, questi ultimi già avevano, come tutti sanno, negato qualsivoglia aiuto anche a Garibaldi quando, nel maggio del 1860, dallo scoglio di Quarto, salpò verso Marsala con i suoi mille. Chissà se nei giorni scorsi, in visita ufficiale a Washington, il siciliano Doc Sergio Mattarella ha, nel perorare la causa curda nei suoi colloqui con Donald Trump, preso debitamente in considerazione le radici e le conseguenze di questo ancor fresco e sanguinante tradimento.

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