“The European Canon is here”, sentenziava trionfante David Bowie in Station to Station, il suo lungo brano del 1976 che delinea un complesso percorso esoterico, tra puntuali riferimenti cabalistici e allusioni alla Via Crucis.
Sia il concetto di “canone europeo”, che l’allusione alla Qabbalah in qualche modo evocano temi cari ad Harold Bloom, il grande critico letterario americano (forse il più noto e discusso al mondo) scomparso il 14 ottobre: in particolare fanno pensare alla sua opera La Kabbalah e la tradizione critica del 1975 (importante saggio sull’influenza della corrente mistica ebraica sulla cultura contemporanea), ma soprattutto al suo libro più celebre, del 1994, intitolato proprio Il canone occidentale.
I libri e le scuole delle età, sorta di summa della sua visione “classica” della letteratura. Una visione opposta a quella che, sprezzante, definiva “Scuola del Risentimento”, ovvero quella composta dagli alfieri del moderno multiculturalismo, da lui indicati e suddivisi in marxisti, femministi, neostorici, lacaniani, decostruzionisti e semioticisti. Non è peregrino pensare che un musicista colto come David Bowie (nella sua lista dei 100 libri preferiti figurano libri di saggisti come Camille Paglia e Peter Ackroyd) conoscesse bene le opere di Bloom.
Se da un lato mi ha fatto sempre sorridere il fatto che un intellettuale così aristocraticamente distante dalla cultura pop possa essere in qualche modo accostato a una rockstar come Bowie, dall’altro nessun personaggio sembra più adatto del Duca Bianco (alter ego lanciato dall’artista inglese proprio in Station to Station) nell’impersonare il disprezzo superiore nei confronti della contemporaneità e la costante tensione verso il sublime propri del critico americano.
Come scrive perfettamente Nadia Fusini nel suo ricordo di Harold Bloom su La Repubblica: “Adorava presentarsi come una creatura umana stanca, triste, un Pierrot lunare che trasudava un’accattivante, esuberante melanconia. Il mondo invecchia, diceva, e disperava del presente, ma amava in modo appassionato la vita, e in essa la letteratura, perché la letteratura è vita – affermava. La grande poesia, predicava, altro non è se non la scena in cui si mostra la mente umana in lotta per conquistare la propria originalità. Che l’uomo sia degno di esistere niente lo dimostra meglio del teatro di Shakespeare, della poesia di Blake, di Dante, insisteva”.
Per coloro che si scandalizzano del disprezzo espresso da Bloom nei confronti di autori considerati giganti della letteratura contemporanea (da Stephen King a David Foster Wallace, da Toni Morrison a Jonathan Franzen, per tacere del commento al vetriolo sul Premio Nobel a Dario Fo), vorrei ricordare come, in nome del “canone”, egli criticasse (più o meno ferocemente) maestri del Novecento come T.S. Eliot ed Ezra Pound, che, a loro modo, erano stati precedenti campioni dell’idea di “canone” (pensiamo al saggio di Eliot su Tradizione e talento individuale del 1920).
Non possiamo, nel breve spazio concessoci, approfondire degnamente i temi del grande critico, dobbiamo limitarci a enunciare i principali: la separazione fra estetica e ideologia, l’interesse per le tradizioni mistico-esoteriche (dalla Gnosi alla Qabbalah) e i testi sacri (soprattutto il Vecchio Testamento), la lotta contro la controcultura divenuta popolare nelle accademie a partire dagli anni 70, la difesa dei classici contro la mediocrità dei contemporanei, l’amore immenso per Shakespeare, messo al centro della cultura europea, come genio assoluto a cui poter accostare solo Dante.
Come scrive Alberto Castoldi: “L’enunciazione di un canone è innanzitutto una sfida al caos, all’entropia, è la proposta di una “forma” come epifania di un’identità possibile. Il canone è l’unico orizzonte in cui il dialogo e l’identità possono dispiegarsi al di sopra della frammentazione in cui siamo altrimenti destinati a fare naufragio”. In questo, Harold Bloom appare (pur con tutti i suoi vezzi e le sue posizione provocatoriamente estreme) come un baluardo della cultura contro la confusione contemporanea, un guardiano della bellezza contro i luoghi comuni imperanti.
Non temiamo di apparire snob, ma concordiamo con il grande critico scomparso: non è il solo a provare “una tristezza elegiaca di fronte alla morte della lettura, in un’era che celebra Stephen King e J.K. Rowling piuttosto che Charles Dickens o Lewis Carroll”.