Antonio Alderuccio, 29 anni, originario del bolognese, lavora nel team legale di un grande gruppo italiano a Basilea, dove vive insieme alla fidanzata Eleonora: "Avremmo voluto restare in Italia. Ci abbiamo provato ma non ci siamo riusciti. Fa male contribuire alla crescita di un Paese che non è il tuo"
Un curriculum ricco di esperienze internazionali – Harvard, Tokyo, Chicago – inviato più di sessanta volte. Mai nessuna risposta. “E poi, paradossalmente, sono finito a lavorare in un grande gruppo italiano. Ma dalla Svizzera“. Antonio Alderuccio, 29 anni, è originario di Alto Reno Terme, in provincia di Bologna, e ora vive a Basilea, dove si era trasferito seguendo la sua compagna per cercare lavoro: nel giro di poco tempo ha trovato lavoro nel team legale di una società del settore energetico. Un contratto a tempo indeterminato che ha permesso ad Antonio di programmare le nozze e di sostenere le spese quotidiane del padre, da quattro anni malato di Alzheimer.
Laureato in Giurisprudenza a Bologna, durante gli studi fonda una rivista scientifica in inglese, University of Bologna Law Review, nonostante lo scetticismo di alcuni professori e l’indifferenza delle istituzioni a cui si era rivolto per parlare di un progetto ben avviato, con contributi scientifici da tutto il mondo e indicizzato nei principali database internazionali: “La mancanza di dialogo con le istituzioni è avvilente, mi ha molto amareggiato”. Intanto, il suo cv si arricchisce di esperienze internazionali: tre mesi a Harvard per preparare la tesi di laurea, una summer school a Londra e una a Tokyo. Dopo la laurea approfondisce gli studi a Chicago: “Devo ringraziare i prestiti dei nonni e i sacrifici dei miei genitori, ma è un investimento che rifarei altre cento volte”.
Nel frattempo si fa le ossa con diversi stage, a Bologna, Milano e Shanghai, ma l’esperienza negli studi legali lo spinge a cambiare rotta. “Io, che ero stagista pre-laurea, tornavo a casa sempre tardi la sera. I praticanti facevano una vita decisamente peggiore, spesso lavoravano anche il weekend. Ma era soprattutto il lato umano a spaventarmi, guardavo i colleghi più anziani e pensavo: io non voglio diventare così”. Antonio perciò pensa di orientarsi sulla ricerca, con un dottorato nel Regno Unito. Ma in quel periodo arriva la malattia del padre. Con una diagnosi di Alzheimer da affrontare – e le spese che ne derivano per le cure e il mantenimento domestico – si rende conto di dover cercare presto lavoro. Invia curricula a Milano, Bologna e Firenze ma le risposte tardano ad arrivare: “Non erano candidature buttate a caso, strutturavo le lettere di presentazione in modo che fossero aderenti alle necessità delle aziende. Ho inviato quasi 65 candidature in due anni e mi hanno chiamato per un solo colloquio“.
La sua fidanzata, Eleonora Lena, vive un’esperienza simile: una laurea, un master e diversi stage nell’ambito delle relazioni internazionali. Pur di essere indipendente, mentre cerca lavoro nel suo settore, per qualche tempo lavora come cameriera in una pizzeria a Mantova. “Ho sempre creduto nella dignità del lavoro, qualsiasi lavoro – commenta Eleonora –. Me lo ha insegnato mia madre, che oggi non c’è più. Quando è arrivata in Italia dall’India si è sempre rimboccata le maniche e ha fatto qualsiasi lavoro con umiltà e determinazione, ed era laureata”. Dopo mesi di ricerche infruttuose e dozzine di cv, Eleonora risponde a un annuncio di una società di consulenza in ambito farmaceutico in Svizzera. Quattro giorni dopo viene richiamata per un colloquio via Skype. Segue l’offerta di uno stage retribuito, che nel giro di pochi mesi diventa un lavoro stabile. Antonio, dopo un anno, decide di raggiungerla a Basilea, dove trova lavoro dopo poco: “Noi non abbiamo mai pensato di scappare dall’Italia o che l’estero fosse meglio. Abbiamo semplicemente ampliato il raggio di ricerca. E la Svizzera ci ha risposto”.
Una decisione difficile da prendere, ma necessaria: “Molte persone criticano la scelta di andarmene lasciando un padre malato, ma io giro la questione: come avremmo fatto a sostenere la sua malattia se io fossi stato a casa sul divano? Con il mio stipendio posso provvedere all’assistenza medica di mio padre, dando a mia madre un po’ di tranquillità economica. Proprio papà, nei suoi momenti di lucidità, mi ha spinto a trasferirmi”. Adesso Antonio lavora nell’ufficio legale di una società svizzera ed ha iniziato un dottorato all’Università di Friburgo. “La società per cui lavoro fa parte di un gruppo italiano, e per entrarci sono dovuto espatriare: è quasi un paradosso”.
Il costo della vita in Svizzera è generalmente più alto, ma la forbice, sostiene, è più equilibrata: “Abbiamo tante spese aggiuntive, ma abbiamo una bella casa, la tanto desiderata macchina elettrica, possiamo uscire a cena e andare in vacanza, mettendo anche da parte qualcosa. In Italia, nella stessa posizione lavorativa, difficilmente saremmo riusciti ad avere questo tenore di vita”. La cosa che più li rende orgogliosi, raccontano, è organizzare il loro matrimonio senza dover chiedere nulla alle famiglie. Antonio non ha mai rimpianto la sua scelta: “Non so se siamo cervelli in fuga, siamo una coppia di italiani che lavora: un po’ fa male l’idea di contribuire ad un Paese che non è il nostro. Avremmo voluto restare in Italia, ci abbiamo provato, non ci siamo riusciti”, dice con un pizzico di amarezza. E poi aggiunge: “Mia mamma spesso mi dice: meno male che sei andato via e ti sei sistemato, altrimenti come avremmo fatto? Penso di essere fortunato, ma il pensiero mi mette ansia: quanti ragazzi in Italia ci sono nella mia situazione, o peggio?”.