Madeleine: una data, un ricordo, un personaggio - La rubrica del venerdì de ilfattoquotidiano.it: tra cronaca e racconto, i fatti più o meno indimenticabili delle domeniche sportive degli italiani
A vederlo giocare oggi, anche con la maglia del Ravenna o della Ternana, quando era ultratrentenne e a fine carriera, lo chiamerebbero almeno in Nazionale, e un ingaggio top da 5 o 6 milioni di euro all’anno non glielo toglierebbe nessuno, nonostante l’età. Oggi Ciccio Dell’Anno sarebbe il regista perfetto: lui che regista non era. Piedi buoni, ottimi, tanta fantasia, guizzi e soprattutto un sesto senso, una visione dello sviluppo del gioco e dell’azione comune a pochi. Era un 10, un trequartista si diceva allora: tanti assist, pochi gol e piedi che diventano distributori di cioccolatini quando bisogna attaccare e una banca svizzera quando c’è da far scorrere il cronometro. E oggi, lontano dal calcio e senza troppi rimpianti, quasi introvabile per addetti ai lavori e intervistatori, Dell’Anno non si rivede in nessuno: “Chi è simile a me? Non mi rivedo in nessuno onestamente: anche oggi si guarda totalmente al fisico e il talento puro è qualcosa considerato tipo optional”.
Qualche anno più tardi Carletto Ancelotti avrebbe intuito che cambiare trequarti al trequartista, passandolo da quella avversaria alla propria, nel calcio moderno era ben più redditizio: ne sa qualcosa Pirlo. “L’ultimo rimasto ad avere talento e visione senza avere il fisico – dice Dell’Anno – Però hai ragione…se giocassi oggi, con Ancelotti o con Sarri, con questi allenatori che guardano alla qualità, mi divertirei, si divertirebbero loro e farei divertire pure i tifosi. Il calcio offensivo mi è sempre piaciuto”. Ma Ancelotti, quando giocava Dell’Anno, non allenava e quel calcio che andava verso la fase ultramuscolare considerava il “trequartista” una sorta di peso morto, con ovvie e dovute eccezioni. E così, una carriera che pareva destinata a grandi cose si arenò nel momento migliore. Partì bambino da Baiano, cittadina irpina di 4mila abitanti, per arrivare a Roma a soli 12 anni: un ciuffo biondo e il sogno di diventare calciatore da alimentare nelle giovanili della Lazio.
A 17anni vorrebbero mandarlo a farsi le ossa in B, ma l’allenatore Juan Lorenzo, subentrato, lo vede giocare e sentenzia: “Tu in prestito? Sono matti, mi servi”. E lo fa esordire. “Oggi per giocare li fanno arrivare a 30 anni e i settori giovanili a parte qualche rara eccezione non vengono considerati. Abbiamo un problema di testa: ‘sei bravo e giochi’ è un concetto semplice, che tu abbia 12 anni o 30, lo fa il Barcellona, perché non può farlo una squadra italiana?”. Dell’Anno non va in B, dunque, ma ci va la Lazio con una stagione disastrosa: nonostante ciò il ragazzino Dell’Anno è tra i pochi a prendersi gli applausi dei suoi tifosi, regalandogli e regalandosi l’ebrezza di far sedere a terra uno poco avvezzo a quel trattamento: Platini.
“Ma all’epoca il talento o lo avevi o non lo avevi: oggi ne vedo troppi sopravvalutati. E basta vedere cosa accade in campo: un esterno su 10 cross ne mette otto fuori dall’area e due negli stinchi dell’avversario. I centravanti di oggi nella Serie A di 25 anni fa, quella di Van Basten, Careca, Batistuta e Balbo non avrebbero mai giocato. E così la Serie A diventa noiosa: io più di un quarto d’ora non riesco a guardarla”. Dopo qualche stagione in una società in forte difficoltà Ciccio riparte da Arezzo e poi arriva a Udine, dove sboccia: sale in A, e con Branca e Balbo fa vedere che è forte, ma forte per davvero. Assist su assist, un gol stupendo al Napoli di Ranieri bevendosi mezza difesa e andando di sombrero e sinistro all’incrocio. E Sacchi, allora ct azzurro, ci mette gli occhi: “Gol e giocate all’Udinese mi valgono l’attenzione della Nazionale, ma allora non era come oggi, che fai due partite buone e puoi stare anche all’Acireale, con ogni rispetto per l’Acireale s’intende, e ti convocano. All’epoca giocare in una piccola era una sorta di handicap: non mi chiamarono mai”.
Lo volevano in tante, su tutte il Napoli che però ha i bilanci disastrati e l’Inter, che se lo aggiudica nel ’93 per 14 miliardi di lire, una somma grossa per l’epoca. Ma non andò bene: un problema alla schiena gli frena la carriera, gioca poco in tre stagioni, e l’opportunità sfuma. Riparte dalla B: prima Salerno, poi Ravenna, dove con Enrico Buonocore, altro talento prelibato, delizia i tifosi giocando ormai in pianta stabile da regista. Infine Terni e l’addio al calcio, definitivo. “Ti dico la verità: ci ho anche provato a rimanere nel giro. Avevo buon occhio per i giovani calciatori, comincio a guardarne per una squadra: ne vedo uno che gioca solo dieci minuti, mi impressiona e lo segnalo subito. Mi rispondono: ma lo abbiamo visto così poco, invece guarda l’altro quanto è alto. Risultato: quello visto da me l’ha preso l’Ajax, l’altro è rimasto alto. Se devo guardare chi è più alto o ha le spalle più larghe, e non chi è più forte, rimango a casa: la mia idea di calcio è un’altra”.