Quando mi sono trasferita a Londra, circa un anno fa, non avrei mai immaginato che le mie abitudini e il mio modo di vedere la realtà sarebbero cambiate così rapidamente. Ho preso questa decisione con l’obiettivo di migliorare l’inglese e contemporaneamente, ho accettato un lavoro full time in un pub, per risparmiare in vista di un master alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra. Dopo un anno e mezzo di sacrifici tra corsi di lingua e birre alla spina servite in un classico pub stile vittoriano, sono riuscita a realizzare il mio sogno entrando all’Università con un master post-laurea in Middle East Politics e lingua araba – sacrifici che in una città come Londra sono la normalità, soprattutto tra noi giovani.

Londra è una città complicata e contraddittoria, piena di stimoli – forse anche troppi – ma anche di ingiustizie. È matematicamente impossibile seguire tutto quello che accade in città ma concentrandosi sugli input giusti, la possibilità di una concreta svolta lavorativa e perché no, esistenziale, è sempre a portata di mano. Ma rispetto al passato, tra le contraddizioni più evidenti, si è oggi aggiunto lo “spettro” della Brexit: una presenza giornaliera che si cela dietro ogni tipo di conversazione e gesto quotidiano, formale o meno che sia. E così, tra una lezione all’Università e una classica pioggerella londinese, la mentalità da leaver entra senza bussare nella vita quotidiana degli europei trasferitisi nel Regno Unito e si frappone tra loro e i bisogni giornalieri. In vista della Brexit, ad esempio, alcuni uffici e negozi cominciano a non applicare più alcune direttive e regolamenti europei, rendendo la routine dei residenti comunitari più complicata e indefinita.

Si tratta di una realtà che cambia, fatta di diverse “seccature” quotidiane che possono d’un tratto trasformarsi in problemi molto più gravi. Pensate che, ad esempio, le prescrizioni mediche degli altri Paesi membri possono essere accettate dalle farmacie inglesi ma, a differenza di quelle italiane, è necessario depositare la ricetta nell’archivio della farmacia scrivendo il proprio domicilio in calce. L’ho scoperto dopo aver passato un paio di pomeriggi in ospedali e farmacie che rifiutavano la mia prescrizione italiana. Alcuni mi hanno suggerito di rivolgermi a un medico privato, la cui visita può costare da un minimo di 70 sterline ad un massimo di 300. In un altro caso, gli sportellisti di una banca molto gettonata mi hanno detto che la mia carta d’identità non era un documento valido per aprire un conto e che per questo, avrei dovuto presentare un passaporto. Notizia smentita quando il consulente della banca che si è occupato di aprire il mio conto mi ha comunicato che la carta d’identità è un documento assolutamente valido perché “we are still in the European Union”.

Tutto ciò è solo l’inizio di fatti ancor più gravi che si stanno verificando o che potrebbero accadere dopo lo scoccare della mezzanotte del “leave”. Uno degli effetti già visibili è per esempio la drammatica diminuzione del numero di infermiere e ostetriche provenienti da paesi membri: circa 5mila nel giro di due anni (marzo 2017-marzo 2019), calo principalmente dovuto alla futura uscita del Regno Unito dall’Unione. Sempre nello stesso ambito, il “National Audit Office” del Parlamento britannico ha dichiarato a fine settembre che il servizio nazionale sanitario non avrebbe potuto fornire medicine e supporto medico a sufficienza se si fosse usciti dall’Unione europea con un “no deal” il 31 di ottobre.

Ci troviamo quindi nel bel mezzo di un preludio inquietante, nel quale sembra che la Gran Bretagna voglia rendere sempre più esclusivi gli accessi ai bisogni primari e secondari da un lato, e dall’altro, invogliare chi è già nel paese ad andar via. Questa, appare del resto una tendenza diffusa quasi in tutto il mondo: per rispondere alle crisi interne si chiudono i confini e di conseguenza, si rende la vita più difficile ai migranti. Una categoria, quest’ultima, difficilmente definibile, poiché da sempre in costante mutamento: oggi sono “loro” ma domani potremmo benissimo essere noi o i nostri cari.

Quindi, se da una parte si ha bisogno di giovani con un background internazionale per capire come cambia il mondo, dall’altra si palesa questa tendenza di ritorno al falso mito della sovranità nazionale, che esclude in maniera subdola tutto ciò che arriva da “fuori” – anche dei semplici studenti comunitari. Tale tendenza nel Regno Unito si è incarnata con questi “brexiters”, promotori di una suicida “retrotopia”, che sta dando vita a una contraddizione spaventosa, contribuendo a distruggere i sogni e le speranze di milioni di giovani. Tuttavia, con questa ferma consapevolezza ci si trova costretti a combattere le tendenze di un ritorno al passato facendo valere i propri diritti in ogni momento della vita quotidiana. Questa è una battaglia generazionale che coinvolge tutte e tutti: nessuno deve avere il diritto di ostacolare le ambizioni e sminuire i sacrifici di milioni di ragazzi e ragazze che cercano di fuggire dalle logiche sovraniste, ma soprattutto da paesi come l’Italia, che di opportunità ne offre troppo poche.

Infine, nessuno ha il diritto di farci sentire stranieri a casa nostra: perché i luoghi dove decidiamo di vivere per arricchire la nostra vita – e anche il paese stesso che ci ospita – sono e saranno sempre le nostre case.

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