L’ex segretaria di stato Hillary Clinton apre una guerra tutta interna ai democratici e il tentativo della Russia di tenere “gli occhi su qualcuno che attualmente è nelle primarie democratiche”. Secondo Clinton, i russi “la stanno preparando per diventare la candidata di un partito terzo” per dividere gli elettori liberali e aiutare la rielezione di Donald Trump. “E’ la favorita dei russi, hanno un sacco di bots e altri modi per sostenerla”. L’acceso scontro in campo democratico è partito in una conversazione della Clinton con David Plouffe, ex manager della campagna di Barack Obama nel 2008 e ora conduttore del podcast “campaign Hq”. Senza fare nomi, l’ex candidata alle presidenziali ha parlato di una delle donne in corsa alle primarie per la nomination del 2020. Il chiaro obiettivo delle allusioni della Clinton, ha ricostruito il sito The Hill, era la deputata delle Hawaii Tulsi Gabbard, già più volte accusata di essere uno strumento dei russi. Molti osservatori hanno notato che le sue dichiarazioni vengono amplificate sui social da troll e bot apparentemente riconducibili a Mosca.

Veterana di guerra in Iraq, la Gabbard ha attaccato più volte l’establishment della politica estera americana, senza però ottenere molta visibilità, dato che nei sondaggi è accreditata dell’1,2%. La sua risposta alla Clinton, durissima, non si è fatta attendere: “Grazie Hillary Clinton. Tu la regina dei guerrafondai, personificazione della corruzione e del marcio che ha nauseato il partito democratico così a lungo, sei finalmente uscita allo scoperto. Da quando ho annunciato la mia candidatura c’è stata una campagna concertata contro di me”, ha twittato la Gabbard, accusando la Clinton di essere la regista degli attacchi. “E’ chiaro ormai che queste primarie sono fra te e me. Non nasconderti vigliaccamente dietro i tuoi accoliti. Scendi direttamente in campo”, ha concluso.

L’attacco della Clinton arriva nel giorno in cui i repubblicani hanno diffuso l’esito del rapporto d’indagine del dipartimento di Stato sull’utilizzo della mail personale da parte della ex candidata alla Casa Bianca. Sono 38 i funzionari accusati di aver violato le procedura di sicurezza nella vicenda, ma non vi sono prove di deliberata mala gestione di informazioni riservate. E’ questo il risultato delle lunghe indagini interne. Il risultato dell’indagine viene diffuso mentre il presidente Donald Trump, che rischia l’impeachment per il Kievgate, ha ripreso gli attacchi su Twitter contro l’ex avversaria democratica, rinfacciandogli fra l’altro la vicenda delle mail. Secondo il rapporto, consegnato in ottobre al Congresso e diffuso ieri dal senatore repubblicano Chuck Grassley, “non sono state trovate prove persuasive di sistematica o deliberata mala gestione di informazioni riservate”. Vi sono casi di “informazioni classificate trasmesse in maniera inappropriata”, ma nella grande maggioranza dei casi i funzionari “erano consapevoli delle politiche di sicurezza e hanno fatto del loro meglio per rispettarle”.

Nell’ambito dell’inchiesta sono state esaminate 33mila mail. Novantuno i casi rilevati, ma nessuno coinvolge materiale ‘classificato’ come riservato. Non è chiaro se i 38, i cui nomi non sono stati resi pubblici, saranno sanzionati. Per il Washington Post nella lista ci sono anche ambasciatori. Pochi hanno mandato le mail direttamente alla Clinton. La maggior parte erano dirette al vicesegretario di Stato William Burns o all’ex direttore della pianificazione politica Jack Sullivan, i quali le hanno poi trasmesse alla posta privata della Clinton. L’uso della mail privata in violazione delle regole di sicurezza, che la Clinton diceva di aver usato per praticità, fu svelato durante l’inchiesta sull’attacco al consolato americano di Bengasi. Da allora è stato un cavallo di battaglia repubblicano per attaccare l’esponente democratica. L’indagine fu affidata all’Fbi. Nel luglio 2016 il direttore del Federal Bureau James Comey annunciò che la Clinton non sarebbe stata incriminata ma stigmatizzò la sua “negligenza”. Il caso fu poi riaperto da Comey a ridosso delle elezioni presidenziali di novembre. Di nuovo non fu trovata alcuna prova a carico, ma la vicenda danneggiò politicamente la candidata democratica, poi sconfitta da Trump.

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