C’è un’altra destra. Altra: diversa dalle scene zotiche del Papeete, distinta dalla cattiveria quasi primitiva rivendicata e ostentata, pronta a armarsi e a menare le mani, lontana dall’ossessione dell’ultima voce del popolo e dal piffero magico dei sondaggi, opposta a quella che scambia la patria per una fortezza con i ponte levatoi inchiavardati e i cannoni sui torrioni, impaurita dal futuro alle porte. C’è un’altra destra che punta all’eccellenza delle élite – cioè alla necessità di una classe dirigente -, che ha la bellezza come obiettivo, che vede l’Europa come destino e il patriottismo come “promiscuo”, “pacifico”, “libertario”: un “campo aperto”.
Questa destra è invisibile agli occhi ma esiste, secondo Filippo Rossi, intellettuale che da anni si batte per una “buona destra” ma che nel frattempo ha dovuto fare i conti con lo sterminato dominio berlusconiano e ora si ritrova davanti il populismo ruvido di Salvini. Ex futurista (nel senso di Futuro e Libertà, l’ultimo partito di Gianfranco Fini), ora direttore del Festival Caffeina di Viterbo e di Business.it, Rossi ci crede ancora: un’altra destra è possibile. “Ed è un obbligo mettersi in viaggio alla ricerca di una via traversa”. Rossi prova a compiere il primo passo di questo percorso impossibile con Dalla parte di Jekyll – Manifesto di una buona destra (Marsilio, 192 pagg., 12 euro), che rimanda dichiaratamente a una visione politica energicamente liberale che è sempre stata minoritaria nelle due Chiese – democristiana e comunista – e poi, dopo il crollo della Prima Repubblica, negli innamoramenti di massa, spesso fugaci e caduchi. Libertà come sinonimo di laicità, apertura al mondo; la riprova nel libro sono le citazioni a tutto sesto: da Pasolini a J.R. Tolkien, da Nietzsche a Popper, da Norberto Bobbio a Giano Accame, Marco Tarchi fino a Gianni Rodari e Stefano Rodotà.
Perché battersi per un cambiamento – oggi che la politica ne parla a ripetizione, spesso a vuoto – è un dovere, scrive Rossi. L’altra faccia della destra, d’altra parte, è solo nascosta, è stata solo sopraffatta dalla destra “turpe” (uno degli aggettivi che usa per indicare il sovranismo leghista e non solo). Alla destra, dunque, secondo Filippo Rossi è successo come nello Strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde: “Da una parte una destra nobile, coraggiosa, pacata, valorosa, pulita. Di buoni principi morali”. Dall’altra “un alter ego capace di ogni nefandezza, di percorrere i vicoli più bui dell’animo umano, di viaggiare fino al termine della notte”. Fino a prendere il sopravvento del suo campo, la destra, e di gran parte dello spazio politico.
Gran parte di Dalla parte di Jekyll – scritto con una diversità di registri, da quello divulgativo a quello esortativo e quasi poetico – viaggia sullo scarto tra la “buona destra” che immagina Rossi (riconoscibile solo in quella di altri Paesi europei) e la destra che ad oggi invece è largamente maggioritaria in Italia. E tra i passaggi più eclatanti – di fronte alla destra di Salvini – c’è quello del bisogno di una destra dalle “buone maniere”. “Una destra garbatamente signorile, rigorosa, severa, con un forte senso dello Stato e dell’etichetta”. D’altra parte “le buone maniere sono sempre un modo di imbrigliare la prepotenza, fanno gli uomini più rispettosi e quando i politici non onorano questo patto qualcosa si spezza nella società”. Salvini, scrive Rossi, “è il perfetto campione di questo degrado culturale: offese personali, prese in giro, sfottò razzisteggianti, cultura del sospetto, giustizia sommaria e violenza verbale”.
Quella di Salvini e Meloni è una destra “traditrice” per Rossi: il segretario leghista è “traditore della civiltà italiana, capace di accogliere, aprirsi, vivere”, “dei valori di umanità che impongono di salvare vite umane prima di ogni altra cosa”, ma soprattutto traditore “di una destra che vorrebbe essere giusta e rigorosa, che sa benissimo che salvare tutti non significa accogliere tutti”, di “quel buon senso che lui cita tanto ma che smentisce ogni giorno”. Aggiunge Rossi più avanti nel suo volume che “compito della buona politica è quello di disarmare l’odio che serpeggia nella società”. Invece “oggi la politica sembra allevare draghi invece di combatterli”. Servono leader forti? No, semmai “serve una politica forte che vada oltre il disorientamento”, capace di una visione del futuro, creativa, che segni la strada. Di una politica che sappia fare la classe dirigente e che abbia un progetto di comunità e di futuro, come l’Italia ha avuto per secoli, ricorda Rossi.
Quindi anche la parola patria deve assumere un significato più proprio, aggiunge. Non quello di questa “destra dal priapismo indotto dall’esaltazione” che si riduce a “radici, identità, tradizione, sangue e confini. Razza. Conservazione ed esclusione. Buoni contro cattivi. Celodurismo totalizzante e totalitario”. La patria, incalza Rossi, “non è la famiglia, il paese, la tribù, non è il branco”. E’ il contrario: “E’ campo aperto o non è”. Rossi ricorda che i padri della patria, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, erano spiriti internazionali, l’uno esule a Londra, l’altro eroe dei due mondi, “cosmopoliti” e “culturalmente meticci”. “La patria non è il museo della storia. Né polvere e ragnatele. La patria è il posto delle fragole, il luogo degli affetti, il teatro su cui mettere in scena la polifonia di diversità creatrici, l’armonia degli opposti che decidono di giocare insieme”. E così, viceversa, il sovranismo è “antipatriottico”. “Una buona destra che non può che costruire una società solidale – aggiunge Rossi – non può lasciare qualcuno indietro come se non fosse un fratello. Ecco cosa significa essere compatrioti”. Sembrano parole anomale per chi vive la destra in Italia. Eppure ancora qualche giorno fa Mario Vargas Llosa, Nobel per la Letteratura e liberale di destra, sul Paìs ripeteva per l’ennesima volta che “la paranoia che c’è oggi contro il migrante è una manifestazione di razzismo e questo che prima era mal visto ora ha smesso di esserlo. Anche gli italiani possono parlare contro l’immigrazione in questo modo razzista e pieno di pregiudizi”. E questo, conclude, “è un problema serio per la democrazia”.
Il primato della libertà, il sostegno alla laicità (altro che Vangeli branditi ai comizi di piazza), il trionfo della diversità, il rifiuto dell’egualitarismo. “Contro ogni tentativo di massificazione, di reductio ad unum, di egualitarismo totalitario, di conformismo. Perché non è mai vero che ‘uno vale uno’” scrive Rossi che ricorda la lezione del più grande tra i profeti liberali: “Occorre anche proteggersi – scriveva John Stuart Mill – dalla tirannia dell’opinione e del sentimento predominanti, dalla tendenza della società a imporre come norme di condotta, con mezzi diversi dalle pene legali, le proprie idee e le proprie usanze a chi dissente, a ostacolare lo sviluppo e a prevenire, se possibile, la formulazione di qualsiasi individualità discordante e a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello”.
Quanto c’entri con la metamorfosi recente delle democrazie è davanti agli occhi. Poco meno di duecento anni dopo quelle parole di Mill sembrano buone per quella che Ilvo Diamanti e Marc Lazar in un libro uscito prima della vittoria di Lega e M5s alle Politiche hanno chiamato Popolocrazia (Laterza, 176 pagg., 15 euro). Già in altre occasioni, spiegavano Diamanti e Lazar, la democrazia liberale e rappresentativa ha dovuto respingere “assalti”. “Ma al tempo stesso ha saputo reagire, affrontare altre sfide”, ma questo “a condizione che i ‘partigiani della democrazia‘ riescano ad analizzare e comprendere i cambiamenti che essa sta attraversando. A dimostrare la sua capacità di rispondere alle domande e alle aspirazioni delle popolazioni”. A condizione, in definitiva, “di restituire senso alla politica” e di “ricostruire un clima di fiducia fra i cittadini e i loro rappresentanti”.
E’ l’altro lato di un concetto di cui parla Rossi nel suo Dalla parte di Jekyll quando sottolinea la necessità di una “democrazia aristocratica” che altro non è che il bisogno di una politica che guidi, che indichi la strada: “Privato della testa, il corpo sociale non riesce ad avere alcuna idea di futuro”, secondo Rossi. Di più: “Senza più élite, senza governo, senza politica, è una società che non può funzionare perché non riesce a scegliere tra il giusto e lo sbagliato, tra il bene e il male, tra il buono e il cattivo”.
Il risultato finale è che l’intenzione di Rossi è mettere insieme un sistema di valori per una sua destra ideale – pensiero che se valesse per domani avrebbe l’apparenza del velleitario – in realtà compone un quadro (dalla laicità al rispetto delle regole, dall’apertura al mondo alla progettazione di un futuro, dal trionfo della libertà all’eroismo della bontà) che è riduttivo limitare a decalogo per una “buona destra”, perché assomiglia a una manica a vento di una buona politica. O magari almeno del ritorno della politica, dopo un periodo di una politica “impotente eppure persuasiva” come scrive Marco Revelli in Politica senza politica (Einaudi, 240 pagine, 14 euro), “privata di quel nucleo duro collettivo che si chiamava bene comune”. Non l’abbattimento della politica, ma il ritorno della politica per tornare a parlare del mondo come lo vogliamo.