È tra le più celebri scuole d’inglese al mondo, con oltre 400 sedi in 28 Paesi. Per un’ora di lezione si arrivano a pagare anche 80 euro. Eppure, in tutta Italia, Wall Street English non ha un solo dipendente assunto come insegnante. A sollevare il caso nei mesi scorsi sono stati alcuni docenti dell’istituto, stanchi, dicono, della propria condizione paradossale: se da un lato per assumerli l’azienda chiede laurea, abilitazione e costose certificazioni linguistiche, dall’altro li inquadra come personale amministrativo, tecnico e ausiliario, al pari di bidelli, custodi e centralinisti. Lo stipendio è di 9 euro l’ora, “meno di un addetto alle pulizie”. Già, perché secondo i dirigenti di Wall Street English Italia l’innovativo metodo didattico in uso nei 70 centri – un mix di lezioni frontali e apprendimento da casa tramite piattaforma e-learning – rende il ruolo degli insegnanti del tutto marginale, facendone semplici “verificatori” degli obiettivi raggiunti in autonomia dagli allievi. Un lavoro non concettuale, come quello di un impiegato o di un inserviente.
“Peccato che non sia affatto così”, spiega uno di loro, Alessandro (il nome è di fantasia): “Anzi, per più di metà del tempo il nostro lavoro non ha nulla a che fare con il metodo Wall Street. Facciamo ore di conversazione in gruppo, corsi di business English per le aziende e preparazione ai test di Cambridge, tutto di fronte agli studenti, con lavagna e materiale”. Poi ci sono le sessioni encounter, in cui docente e studente si confrontano sugli esercizi svolti a distanza. “Ma è un lavoro personalizzato, non meccanico. Non diciamo soltanto cosa è giusto e cosa sbagliato, ma spieghiamo gli errori e rivediamo insieme gli argomenti non chiari, com’è naturale che sia”.
E d’altra parte è la stessa azienda a tenere in gran considerazione il loro ruolo: per insegnare in Wall Street servono il Celta o il Tefl, certificati di alto livello che possono costare fino a mille euro. Requisiti più stringenti di quelli chiesti per lavorare nella scuola pubblica. Sul sito dell’istituto si parla di “tutor madrelingua, abilitati all’insegnamento e con pluriennale esperienza nel settore della didattica, sia privata che aziendale”. Ma è proprio qui la sfumatura: “tutor”, non docenti. “Hanno sostituito i termini in estate, dopo che alcuni di noi si sono iscritti al sindacato per rivendicare il giusto inquadramento, formando rappresentanze aziendali a Milano e Genova”, dice Alessandro. Non solo, ma da quando è iniziata la vertenza – racconta – tutti i lavoratori a tempo indeterminato si sono visti abbattere il monte ore: al loro posto Wall Street ha assunto collaboratori autonomi a cui affidare i corsi “premium”, quelli fatti di lezioni frontali. “Se prima, lavorando 28-30 ore alla settimana, guadagnavo abbastanza per sopravvivere, adesso ne lavoro 18 e non riesco a portare a casa più di 700 euro al mese. Per cavarmela sono costretto a dare ripetizioni private, come molti miei colleghi”. La Flc Cgil ha proclamato lo stato di agitazione e minaccia lo sciopero se il prossimo incontro con la dirigenza, il prossimo 22 ottore, non sarà i risultati sperati. A esprimere solidarietà anche i militanti milanesi di Potere al popolo: “Avrete notato in giro le accattivanti pubblicità di Wall Street, che promettono miracoli. Ma i miracoli difficilmente esistono, la realtà è fatta di lavoratori sottopagati al solo scopo di aumentare i profitti dell’azienda”, scrivono su Facebook.
Attualmente, l’inquadramento dei docenti di Wall Street corrisponde al quarto livello, prima area (“Servizi ATA”) del contratto nazionale Aninsei, la branca di Confindustria che riunisce gli istituti di educazione privati. La definizione è “coordinatori e tutor”, inserita nel 2015 ricalcando un accordo integrativo già in vigore proprio in Wall Street English, che è la maggiore azienda del settore. I dipendenti chiedono invece di essere inquadrati nella seconda area, “Servizi di istruzione, formazione ed educazione”, e in particolare nel quinto livello, che comprende la voce “docenti in corsi di lingue”. Retribuzione prevista, 14 euro l’ora. Per l’azienda, però, si tratta di una pretesa infondata. “Non risponde al vero che vi siano difformità tra inquadramenti del personale docente e previsioni contrattuali – scrive in una comunicazione del 27 settembre scorso – perché il livello IV, area I rappresenta, per ruolo e natura dell’attività svolta dai tutor, l’inquadramento più corretto”. Al massimo, concede la dirigenza, si potrà “aprire un confronto” in occasione del prossimo rinnovo, finalizzato a “fotografare meglio le attività svolte dal proprio personale”.
“È un tentativo di eludere il problema, come se nel contratto attuale non ci fosse una qualifica adatta a noi”, si sfoga Alessandro. “In realtà c’è, ed è quella dei docenti. L’azienda guadagna vendendo le nostre competenze e a noi restano le briciole: è la piaga del mondo delle scuole di lingua, pieno di sfruttamento, finte partite IVA, precariato e imprenditori senza scrupoli. Eppure gli allievi ci considerano insegnanti a tutti gli effetti, e così siamo definiti anche in materiale pubblicitario, volantini e brochure. Al colloquio ci hanno chiesto di simulare una lezione, non di mostrare doti tecnico-amministrative”. L’aspetto umano e professionale è il più apprezzato anche dai clienti, che spesso chiedono di poter continuare con lo stesso docente da un percorso all’altro. “E li capisco – dice – anch’io troverei riduttivo pagare centinaia di euro per fare un corso al computer. Insegnare una nuova lingua è una sfida complessa, non è un campo in cui si può fare a meno dell’uomo, per fortuna. Anche se a qualcuno piacerebbe”.
Twitter @paolofrosina