“Poi per dar saggio del mio talento, a voti unanimi il Reggimento sua vivandiera mi nominò… Son persuasissima ch’alla battaglia io pur cogli altri saprei marciar…. schioppi e sciabole, bombe e mitraglia, con voi pugnando, saprei sfidar”. Chi parla è Maria che così si descrive all’inizio de La figlia del reggimento di Gaetano Donizetti: vivandiera del reggimento, ma capace come i soldati (uomini) di fare la guerra in prima linea.
L’opera di Donizetti è della metà dell’Ottocento e questo passaggio è testimone di come la cultura popolare fosse allora già più avanti della morale e della narrazione borghese. Almeno in Francia, perché, a onor del vero, gli autori del testo erano francesi e il debutto fu a Parigi. L’Armée napoleonica aveva già codificato da tempo l’impiego delle donne in servizi ausiliari delle truppe come vivandière e cantinière. Erano civili, ma vestivano con una gonna sopra i pantaloni, metà uomini e metà donne come si può vedere in tante stampe dell’imagerie di Épinal di Pellerin .
L’esercito piemontese e il Regio Esercito seguirono modelli analoghi e anche la vivandiera venne inserita formalmente nella struttura militare piemontese e poi italiana: nel periodo delle guerre d’indipendenza di vivandiere ce n’erano sei per reggimento. Al giro del secolo vinsero però il conformismo, i merletti, la cultura del tinello e del rosolio. Prevalsero i sussurri gozzaniani e il lapis delle poesie di Marino Moretti. E delle donne nell’Esercito italiano non se ne parlò più.
Per un secolo. Che per quanto sia stato secondo Eric Hobsbawm “il secolo breve”, sempre cento anni sono. In Italia la sola forma organizzata di presenza femminile in un ambito (para)militare è quella delle crocerossine, ovvero il Corpo delle infermiere volontarie della Croce rossa italiana. Figlie della stessa cultura di esclusione che ha segnato la storia delle donne italiane, portano per di più le stimmate di essere nate – così narra la loro storia – nei salotti dell’Italia dei Savoia.
E che anche quando sono state raccontate al cinema, sia pure da Roberto Rossellini ne La nave bianca, prevale l’elemento romantico, idealizzante. Senza con ciò nulla togliere, sia chiaro, ai loro meriti, ma in qualche modo rimarcando una separatezza per cui ancor oggi le crocerossine si chiamano “sorelle”, temo più nella accezione religiosa del termine che in quella solidale e partecipante con cui ad esempio si riferisce Rosangela Pesenti alle combattenti curde ne Il nostro no alla guerra conta, pubblicato sul blog dell’Unione donne italiane.
L’impegno diretto, spesso decisivo, delle donne curde nella guerra per i diritti del loro popolo è stato ed è purtroppo di nuovo oggi sotto gli occhi di tutti. Combattenti che non hanno dovuto chiedere il permesso a nessuno, come non pensava di averne bisogno la Maria di Donizetti. E come certo non chiesero permesso le donne della Resistenza italiana. Diciannove decorate di medaglia d’oro al valor militare. Le loro storie le trovate sul sito dell’Associazione nazionale partigiani. Una, Paola Del Din, classe 1923 è l’unica ancora in vita.
La lettura della motivazione (sia pure scritta nel 1945) della sua medaglia d’oro è un manualetto di psicologia che la dice lunga sulla violenza degli stereotipi. Incurante del fatto che la medaglia fosse destinata a una donna, l’ignoto estensore scrive infatti “seppe in ogni circostanza assolvere con rara capacità e virile ardimento“. Virile ardimento? L’idea che l’ardimento o il coraggio siano necessariamente qualità maschili non deve minimamente aver scalfito l’autore.
Eppure donne coraggiose ce ne furono tante. Durante la Resistenza molte furono impiegate come staffette. Una di loro fu Tina Merlin che anni dopo, da giornalista de l’Unità, fu la prima e per molto tempo l’unica a denunciare il pericolo della diga del Vajont. Ve lo racconto perché fu anche la mia prima “capa” a metà degli anni Settanta: allora giovane collaboratore de l’Unità, mi emozionavo a sentire le sue storie di quando attraversava le linee nazifasciste per portare i messaggi ai partigiani (tra questi il fratello Toni che sarà ucciso dai tedeschi pochi giorni prima del 25 aprile).
Se qualcuno si stesse chiedendo perché mai oggi stia sproloquiando di donne, guerre e soldati, è presto detto: sono caduto anch’io nella trappola celebrativa degli anniversari. Giusto vent’anni fa una legge rompeva il tabù e alle donne italiane venivano aperte le porte degli arruolamenti nelle forze armate, compresi i Carabinieri, e nella Guardia di finanza. Compiacersi oggi è un po’ la classica foglia di fico. Oppure è come la barzelletta di chi esulta per essere arrivato terzo in una gara con tre concorrenti.
Insomma, uno mangia con i denti che ha e i nostri denti sono quelli di una società refrattaria ai cambiamenti. Fatico insomma a partecipare ai festeggiamenti, anche perché ricordo bene i commenti negativi all’arruolamento delle donne che per anni circolavano – e ancora girano – nel mondo militare. Le percezioni errate sulla idoneità o meno delle donne a far parte delle forze armate. E che hanno trovato ospitalità anche in documenti ufficiali. Uno per tutti, la direttiva del 2002 dello Stato maggiore della Difesa intitolata “Etica militare” e che avrebbe voluto affrontare anche il tema dell’integrazione nelle forze armate.
Molti buoni propositi ma in controluce prevale il pregiudizio, come in questo passaggio sulle differenze psicologiche tra donne e uomini: “Si osserva che negli uomini è generalmente attivo un forte processo di internalizzazione quale tendenza a non mostrare l’emotività all’esterno. Le donne invece pongono solitamente in essere un processo di esternalizzazione delle proprie emozioni al fine di condividerle con gli altri anche mediante il confronto… Infatti, se manifestare le proprie emozioni e condividerle con gli altri permette di riflettere e di elaborarle ai fini di un più efficace sviluppo dell’attività in svolgimento, lo stesso non si può dire in un contesto operativo dove è necessaria la massima prontezza di reazioni ed una forte tenuta emotiva”. Insomma l’astuto psicologo che ha scritto queste righe nella sostanza dice che alla fine si tratta di donnette isteriche su cui non si può fare affidamento. Mica come gli uomini, signori miei.
Il bello (si fa per dire) è che mentre noi ci compiacevamo per essere stati così magnanimi con le donne aprendo loro vent’anni fa le porte delle caserme, in altri luoghi le donne militari erano già ammesse, ad esempio, a fare servizio a bordo dei sottomarini, cosa da noi ancora preclusa. La prima fu la Marina norvegese, nel 1985. Persino la Spagna, nel 2000, autorizzò l’imbarco delle donne sui sommergibili. Insomma, siamo all’adelante Pedro, con juicio. Mucho juicio. D’altronde i numeri ci dicono come il rapporto tra le donne e le forze armate non sia proprio di entusiasmo. Alla fine del 2017, secondo i dati pubblicati dalla Relazione sullo stato della disciplina militare e dell’organizzazione delle forze armate, le donne in armi erano 14580; in tutto con un’incidenza variabile tra il 3,69% dell’Aeronautica e il 6,75% dell’Esercito.
In Polizia le donne rappresentano il 15% del personale. Nei Carabinieri, il corpo militare direttamente paragonabile con la Polizia di Stato, le donne sono il 4,12%. Segno che non è il “mestiere” a determinare la scelta di una carriera, ma altri fattori. Non a caso nei primi concorsi per le forze armate le domande al femminile erano circa la metà: oggi sono sotto il 20% e l’arruolamento sta largamente sotto il dieci. Evidentemente il contesto è respingente. Al di là della iconografia ufficiale che vede le donne sempre ben pettinate e ordinate in tutte le foto diffuse dalla Difesa.
Salvo poi scoprire che, vent’anni dopo, nei codici militari mancano ancora del tutto norme specifiche per i reati tipicamente commessi contro le donne, come ha denunciato il procuratore generale militare Marco De Paolis che parla di pressante necessità di una previsione ad hoc su questo tipo di condotte.
E il presidente del Consiglio Interforze sulla prospettiva di genere, organo di consulenza del capo di Stato maggiore della Difesa, nel 2018 era l’ammiraglio Pietro Luciano Ricca, un uomo ovviamente. Non so oggi, ma mi piace vincere facile: scommetto che ancora un uomo è.
Toni De Marchi
Giornalista
Cronaca
Forze armate: vent’anni di donne militari. Brave ma sempre ‘femmine’ sono. No?
“Poi per dar saggio del mio talento, a voti unanimi il Reggimento sua vivandiera mi nominò… Son persuasissima ch’alla battaglia io pur cogli altri saprei marciar…. schioppi e sciabole, bombe e mitraglia, con voi pugnando, saprei sfidar”. Chi parla è Maria che così si descrive all’inizio de La figlia del reggimento di Gaetano Donizetti: vivandiera del reggimento, ma capace come i soldati (uomini) di fare la guerra in prima linea.
L’opera di Donizetti è della metà dell’Ottocento e questo passaggio è testimone di come la cultura popolare fosse allora già più avanti della morale e della narrazione borghese. Almeno in Francia, perché, a onor del vero, gli autori del testo erano francesi e il debutto fu a Parigi. L’Armée napoleonica aveva già codificato da tempo l’impiego delle donne in servizi ausiliari delle truppe come vivandière e cantinière. Erano civili, ma vestivano con una gonna sopra i pantaloni, metà uomini e metà donne come si può vedere in tante stampe dell’imagerie di Épinal di Pellerin .
L’esercito piemontese e il Regio Esercito seguirono modelli analoghi e anche la vivandiera venne inserita formalmente nella struttura militare piemontese e poi italiana: nel periodo delle guerre d’indipendenza di vivandiere ce n’erano sei per reggimento. Al giro del secolo vinsero però il conformismo, i merletti, la cultura del tinello e del rosolio. Prevalsero i sussurri gozzaniani e il lapis delle poesie di Marino Moretti. E delle donne nell’Esercito italiano non se ne parlò più.
Per un secolo. Che per quanto sia stato secondo Eric Hobsbawm “il secolo breve”, sempre cento anni sono. In Italia la sola forma organizzata di presenza femminile in un ambito (para)militare è quella delle crocerossine, ovvero il Corpo delle infermiere volontarie della Croce rossa italiana. Figlie della stessa cultura di esclusione che ha segnato la storia delle donne italiane, portano per di più le stimmate di essere nate – così narra la loro storia – nei salotti dell’Italia dei Savoia.
E che anche quando sono state raccontate al cinema, sia pure da Roberto Rossellini ne La nave bianca, prevale l’elemento romantico, idealizzante. Senza con ciò nulla togliere, sia chiaro, ai loro meriti, ma in qualche modo rimarcando una separatezza per cui ancor oggi le crocerossine si chiamano “sorelle”, temo più nella accezione religiosa del termine che in quella solidale e partecipante con cui ad esempio si riferisce Rosangela Pesenti alle combattenti curde ne Il nostro no alla guerra conta, pubblicato sul blog dell’Unione donne italiane.
L’impegno diretto, spesso decisivo, delle donne curde nella guerra per i diritti del loro popolo è stato ed è purtroppo di nuovo oggi sotto gli occhi di tutti. Combattenti che non hanno dovuto chiedere il permesso a nessuno, come non pensava di averne bisogno la Maria di Donizetti. E come certo non chiesero permesso le donne della Resistenza italiana. Diciannove decorate di medaglia d’oro al valor militare. Le loro storie le trovate sul sito dell’Associazione nazionale partigiani. Una, Paola Del Din, classe 1923 è l’unica ancora in vita.
La lettura della motivazione (sia pure scritta nel 1945) della sua medaglia d’oro è un manualetto di psicologia che la dice lunga sulla violenza degli stereotipi. Incurante del fatto che la medaglia fosse destinata a una donna, l’ignoto estensore scrive infatti “seppe in ogni circostanza assolvere con rara capacità e virile ardimento“. Virile ardimento? L’idea che l’ardimento o il coraggio siano necessariamente qualità maschili non deve minimamente aver scalfito l’autore.
Eppure donne coraggiose ce ne furono tante. Durante la Resistenza molte furono impiegate come staffette. Una di loro fu Tina Merlin che anni dopo, da giornalista de l’Unità, fu la prima e per molto tempo l’unica a denunciare il pericolo della diga del Vajont. Ve lo racconto perché fu anche la mia prima “capa” a metà degli anni Settanta: allora giovane collaboratore de l’Unità, mi emozionavo a sentire le sue storie di quando attraversava le linee nazifasciste per portare i messaggi ai partigiani (tra questi il fratello Toni che sarà ucciso dai tedeschi pochi giorni prima del 25 aprile).
Se qualcuno si stesse chiedendo perché mai oggi stia sproloquiando di donne, guerre e soldati, è presto detto: sono caduto anch’io nella trappola celebrativa degli anniversari. Giusto vent’anni fa una legge rompeva il tabù e alle donne italiane venivano aperte le porte degli arruolamenti nelle forze armate, compresi i Carabinieri, e nella Guardia di finanza. Compiacersi oggi è un po’ la classica foglia di fico. Oppure è come la barzelletta di chi esulta per essere arrivato terzo in una gara con tre concorrenti.
Insomma, uno mangia con i denti che ha e i nostri denti sono quelli di una società refrattaria ai cambiamenti. Fatico insomma a partecipare ai festeggiamenti, anche perché ricordo bene i commenti negativi all’arruolamento delle donne che per anni circolavano – e ancora girano – nel mondo militare. Le percezioni errate sulla idoneità o meno delle donne a far parte delle forze armate. E che hanno trovato ospitalità anche in documenti ufficiali. Uno per tutti, la direttiva del 2002 dello Stato maggiore della Difesa intitolata “Etica militare” e che avrebbe voluto affrontare anche il tema dell’integrazione nelle forze armate.
Molti buoni propositi ma in controluce prevale il pregiudizio, come in questo passaggio sulle differenze psicologiche tra donne e uomini: “Si osserva che negli uomini è generalmente attivo un forte processo di internalizzazione quale tendenza a non mostrare l’emotività all’esterno. Le donne invece pongono solitamente in essere un processo di esternalizzazione delle proprie emozioni al fine di condividerle con gli altri anche mediante il confronto… Infatti, se manifestare le proprie emozioni e condividerle con gli altri permette di riflettere e di elaborarle ai fini di un più efficace sviluppo dell’attività in svolgimento, lo stesso non si può dire in un contesto operativo dove è necessaria la massima prontezza di reazioni ed una forte tenuta emotiva”. Insomma l’astuto psicologo che ha scritto queste righe nella sostanza dice che alla fine si tratta di donnette isteriche su cui non si può fare affidamento. Mica come gli uomini, signori miei.
Il bello (si fa per dire) è che mentre noi ci compiacevamo per essere stati così magnanimi con le donne aprendo loro vent’anni fa le porte delle caserme, in altri luoghi le donne militari erano già ammesse, ad esempio, a fare servizio a bordo dei sottomarini, cosa da noi ancora preclusa. La prima fu la Marina norvegese, nel 1985. Persino la Spagna, nel 2000, autorizzò l’imbarco delle donne sui sommergibili. Insomma, siamo all’adelante Pedro, con juicio. Mucho juicio. D’altronde i numeri ci dicono come il rapporto tra le donne e le forze armate non sia proprio di entusiasmo. Alla fine del 2017, secondo i dati pubblicati dalla Relazione sullo stato della disciplina militare e dell’organizzazione delle forze armate, le donne in armi erano 14580; in tutto con un’incidenza variabile tra il 3,69% dell’Aeronautica e il 6,75% dell’Esercito.
In Polizia le donne rappresentano il 15% del personale. Nei Carabinieri, il corpo militare direttamente paragonabile con la Polizia di Stato, le donne sono il 4,12%. Segno che non è il “mestiere” a determinare la scelta di una carriera, ma altri fattori. Non a caso nei primi concorsi per le forze armate le domande al femminile erano circa la metà: oggi sono sotto il 20% e l’arruolamento sta largamente sotto il dieci. Evidentemente il contesto è respingente. Al di là della iconografia ufficiale che vede le donne sempre ben pettinate e ordinate in tutte le foto diffuse dalla Difesa.
Salvo poi scoprire che, vent’anni dopo, nei codici militari mancano ancora del tutto norme specifiche per i reati tipicamente commessi contro le donne, come ha denunciato il procuratore generale militare Marco De Paolis che parla di pressante necessità di una previsione ad hoc su questo tipo di condotte.
E il presidente del Consiglio Interforze sulla prospettiva di genere, organo di consulenza del capo di Stato maggiore della Difesa, nel 2018 era l’ammiraglio Pietro Luciano Ricca, un uomo ovviamente. Non so oggi, ma mi piace vincere facile: scommetto che ancora un uomo è.
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Roma, 1 mar. (Adnkronos) - "Fulco Pratesi ha saputo non solo denunciare i mali che affliggono l'ambiente ma ha saputo esercitare una grande funzione pedagogica di informazione e formazione sui temi ambientali. Personalmente ricordo il grande contributo di consigli e di indicazioni durante il periodo in cui sono stato ministro dell'Ambiente e in particolare per l'azione che condussi per la costituzione dei Parchi nazionali e per portare la superficie protetta del paese ad un livello più europeo. Ci mancherà molto". Lo afferma Valdo Spini, già ministro dell'Ambiente nei Governi Ciampi e Amato uno.
Roma, 1 mar. (Adnkronos) - "Le immagini che arrivano dalla città di Messina, dove si sono verificati scontri tra Forze dell'Ordine e manifestanti nel corso di una manifestazione no ponte, mi feriscono come messinese e come rappresentante delle istituzioni. Esprimo tutta la mia solidarietà alle Forze dell'Ordine e all'agente ferito, cui auguro una pronta guarigione, e condanno fermamente quanto accaduto. Esprimere il proprio dissenso non autorizza a trasformare una manifestazione in un esercizio di brutalità”. Lo afferma la senatrice di Fratelli d'Italia Ella Bucalo.
Roma, 1 mar. (Adnkronos) - “Inaccettabile quanto accaduto oggi a Messina in occasione del corteo contro la costruzione del Ponte sullo Stretto. Insulti, intolleranza, muri del centro imbrattati con scritte indegne, violenze contro le Forze dell’Ordine. È assurdo manifestare con simili metodi, coinvolgendo personaggi che nulla possono avere a che fare con il normale confronto democratico. Ferma condanna per quanto accaduto, e solidarietà alle Forze dell’Ordine che hanno gestito con grande professionalità i momenti più tesi della giornata”. Così Matilde Siracusano, sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento e deputata messinese di Forza Italia.
Roma, 1 mar. (Adnkronos) - "Siamo orgogliosi della nostra Marina militare italiana che, con il Vespucci, ha portato nel mondo le eccellenze e i valori del nostro Paese. Bentornati a casa: la vostra impresa, che ho avuto la fortuna di poter vivere personalmente nella tappa di Tokyo, è motivo di vanto per ogni italiano. Grazie!” Così il capogruppo della Lega in commissione Difesa alla Camera Eugenio Zoffili.
Roma, 1 mar. (Adnkronos) - "Di fronte a quanto sta avvenendo nel mondo, agli stravolgimenti geopolitici e all’aggressione subita ieri alla Casa Bianca dal presidente ucraino, troviamo gravi e fuori luogo le considerazioni dei capigruppo di Fdi. Non è una questione di contabilità ma di rispetto verso il Parlamento. E in ogni caso la premier Meloni è venuta a riferire in Parlamento solo prima dei Consigli europei, come hanno fatto tutti gli altri suoi predecessori, perché era un suo dovere. E da oltre un anno e mezzo non risponde alle domande libere di un Premier time in Aula. Oggi siamo di fronte ad una gravissima crisi internazionale e alla vigilia di un Consiglio europeo che dovrà prendere decisioni importanti per l’Ucraina e per l’Europa. Dovrebbe essere la stessa Giorgia Meloni a sentire l’urgenza di venire in Aula per dire al Paese, in Parlamento, non con un video sui social, da che parte sta il Governo italiano e quale contributo vuole dare, in sede europea, per trovare una soluzione". Lo affermano i capigruppo del Pd al Senato, alla Camera e al Parlamento europeo Francesco Boccia, Chiara Braga e Nicola Zingaretti.
"Per questo -aggiungono- ribadiamo la nostra richiesta: è urgente e necessario che la presidente del Consiglio venga in Aula prima del Consiglio europeo del 6 marzo. Non si tratta di una concessione al Parlamento, che merita maggior rispetto da parte degli esponenti di Fdi e di Giorgia Meloni che continua a sottrarsi al confronto”.
(Adnkronos) - "La scomparsa di Fulco mi addolora profondamente. Con lui ho condiviso anni di passione e impegno per la tutela dell’ambiente: io come presidente del Wwf Italia dal 1992 al 1998 (e membro del Board internazionale con il principe Filippo), lui come figura guida e poi presidente onorario dell’associazione, dopo la breve parentesi politica che lo aveva tenuto lontano. Fulco è stato un punto di riferimento per tutti noi che ci siamo dedicati alla salvaguardia della natura. Le sue idee, la sua capacità di coinvolgere e di trasmettere amore per la biodiversità resteranno un esempio prezioso". Lo afferma Grazia Francescato, già presidente dei Verdi e del Wwf Italia, ricordando Fulco Pratesi.
"Insieme -ricorda- abbiamo sognato e lavorato per un mondo più giusto e sostenibile, dividendoci persino la stessa scrivania pur di coordinare al meglio le nostre iniziative. In questo momento di grande tristezza voglio ricordarlo come un uomo coerente e generoso, che non ha mai smesso di credere nella forza delle idee e nell’importanza di agire in difesa del nostro pianeta. Ai suoi familiari e a tutti coloro che gli hanno voluto bene va il mio sentito cordoglio. Fulco resterà sempre nel mio cuore e in quello di tutti coloro che l’hanno conosciuto e hanno collaborato con lui. Il suo insegnamento e la sua dedizione alla natura continueranno a ispirare il nostro lavoro e le prossime generazioni".
Roma, 1 mar. (Adnkronos) - "Vicinanza e solidarietà da parte di Fratelli d’Italia alle forze dell’ordine che anche oggi sono state bersaglio di violenze ingiustificate da parte dei soliti professionisti della violenza ormai sempre più coccolati dalla sinistra locale, che questa volta hanno cercato di colpire la cerimonia di inaugurazione dell'anno accademico dell'Università bolognese alla presenza del ministro Bernini e al rettore, a cui va la nostra vicinanza”. Così Galeazzo Bignami, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera.