Il 4 aprile 2017 un nuovo attacco col gas sarin uccise 70 persone nella cittadina strategica di Khan Shaykhun, dopo un raid aereo di Damasco. La coalizione occidentale puntò il dito contro il governo, colpevole di non aver distrutto tutte le armi chimiche in suo possesso e di averle usate per piegare l’opposizione, mentre il regime sostenne di aver colpito un deposito di armi chimiche in mano ai ribelli.
L’amministrazione Trump aveva davanti a sé tre opzioni: non intervenire, come aveva fatto il suo predecessore nel 2013, attaccare duramente il regime con l’intento di rovesciarlo oppure compiere un’azione dimostrativa. Scelse la terza opzione, lanciando 59 missili Tomahawk contro la base aerea di Shayrat, a sud di Homs. Un attacco che non provocò particolari danni, ma che venne considerato dalla Russia come un atto di guerra contro il governo siriano.
Dopo che le Nazioni Unite attribuirono al regime le responsabilità per i fatti di Khan Shaykhun, altri raid, anche israeliani, colpirono le basi di Damasco. Ma la presenza della Russia al fianco di Assad impedì che quest’ultimo pagasse per l’uso del sarin. Un ruolo, quello di Mosca, che perfettamente riassunto nella famosa immagine dell’abbraccio tra Assad e Putin a Sochi, nel novembre 2017, quando il primo ringraziò l’omologo russo per “aver salvato lo Stato siriano“.