Da molti anni a questa parte, se non ve ne siete accorti, ogni occasione è buona per screditare il potere giudiziario. Cosicché i giudici, osannati ai tempi di Tangentopoli, vivono oggi una grave crisi di popolarità. Certo il recente caso Palamara ha evidenziato delle degenerazioni inaccettabili. Ma da tempo ci sono politici, giornalisti e pseudo-tali sempre pronti a lanciare strali contro la magistratura – a prescindere dalla valutazione dei fatti -, utilizzando sapientemente anche quell’eccezionale strumento di manipolazione psicologica di massa che sono i social media, megafono delle peggiori sciocchezze. Ferrarotti docet.
Ebbene, gran parte di queste catilinarie sono fondate sulla strumentalizzazione dell’operato delle forze dell’ordine. Quasi sempre si commentano provvedimenti giudiziari, senza averli letti. Molto spesso si tratta di notizie false o alterate ad arte al solo fine di denigrare la decisione del magistrato, facendola apparire del tutto inaccettabile secondo il senso comune. A nessuno, per esempio, fa piacere sapere che sia stato inspiegabilmente rimesso in libertà un pericoloso assassino, uno stupratore o uno spacciatore.
Per aggravare la posizione della “toga rossa” di turno – questo colore fu attribuito per la prima volta ad Aurelio Sansoni perché nella Toscana del Ventennio era semplicemente un giudice giusto che non faceva sconti a nessuno – si enfatizzano i sacrifici e il duro lavoro svolto dalla polizia per mettere le manette all’assassino, allo stupratore o allo spacciatore di turno. Sono quei meccanismi descritti, in modo puntuale, da Giuseppe Cricenti e Fernando Gallone nel saggio Non è vero ma ci credo (Armando, 2019): la “bufala”, accompagnata da titolo e foto a effetto, diventa presto virale sui social, suscitando l’indignazione del popolo della rete.
Il copione più gettonato è quello del povero cristo cattivone (meglio se migrante) arrestato dalla polizia e poi incredibilmente “salvato” dai giudici altrettanto cattivoni. Strano, perché le carceri italiane sono piene zeppe di poveri e immigrati, così dicono i dati ufficiali. Davvero pochi sono, invece, i colletti bianchi detenuti. Vale ancora ahimè la vecchia metafora di Plutarco: “le leggi sono come le ragnatele, perché imbrigliano i deboli ma vengono spezzate dai potenti”.
Ma qual è dunque lo scopo malcelato di questa lunga campagna denigratoria? Non certo quello di riflettere sugli eventuali errori giudiziari, magari dopo aver studiato le sentenze e gli atti processuali. Non certo di stabilire se il comportamento del magistrato sia conforme o meno al Codice. Non certo di combattere la corruzione e gli inciuci per le nomine al Csm. Il fine è solo quello di colpire tout court il potere giudiziario.
A taluni non piace la magistratura indipendente, libera di controllare anche i potenti. La magistratura che indaga sulla corruzione, sull’evasione fiscale internazionale, sulle truffe milionarie, sul voto di scambio, sulle collusioni dei politici coi mafiosi. A taluni, cioè, non piace il disegno dei padri costituenti. Per l’articolo 104 della Costituzione, “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”.
E invece loro preferirebbero metterla, in qualche modo, sotto il controllo del potere esecutivo, che potrà decidere ad libitum quali reati sia opportuno reprimere e quali no, archiviando la tanto temuta obbligatorietà dell’azione penale. Ecco a cosa alludono certi volponi quando parlano di una non meglio precisata “riforma della giustizia”.
E questo a chi gioverebbe? Non certo alle persone oneste, che confidano nel corretto funzionamento della macchina giudiziaria. Non certo ai poveracci e ai criminali di strada, che continueranno a essere sanzionati con punizioni esemplari. La maleodorante riforma sarà invece gradita a ricchi delinquenti, boiardi e mafiosi, che vedranno crescere naturalmente le loro chances, già elevate, di farla franca. Così l’uguaglianza davanti alla legge andrà definitivamente a farsi benedire.
Ma torniamo alle forze dell’ordine. A mio avviso, sarebbe auspicabile che quelle anime progressiste che, dopo la provvidenziale sentenza della Corte costituzionale, hanno avviato il tardivo processo di sindacalizzazione della polizia giudiziaria a ordinamento militare, decidano di far sentire la loro voce a difesa dell’indipendenza dei magistrati. Che si oppongano a ogni forma di strumentalizzazione del lavoro degli inquirenti, non di rado costretti a operare, con comprensibili turbamenti, sotto i riflettori mediatici e pressati da insulse polemiche politiche. Chi chiede che venga finalmente applicata la Costituzione nel mondo militare, non può non essere sensibile a questo argomento.
Non può non avere a cuore i principi costituzionali dell’autonomia della magistratura, dell’obbligatorietà dell’azione penale e dell’uguale soggezione dei cittadini alla legge. Una presa di posizione del genere, da parte dei nuovi sindacati militari, contribuirebbe a fugare i dubbi di chi teme che nel mondo militare possano nascere dannose corporazioni autoreferenziali. Sarebbe davvero un ottimo biglietto da visita.