Senza la straordinaria performance dell’attrice texana, e il suo sacrificio a un possente trucco quotidiano accompagnato da un training vocale eccezionale, certamente destinata alla candidatura all’Oscar, questo dramma non avrebbe alcun senso di esistere
“Io faccio i film ma a far sognare la gente tocca a te”. Così parlava il grande produttore hollywoodiano alla minuscola bambina dall’immensa voce. E così, dove nasceva una stella moriva un’infanzia. Perché Judy Garland la sua infanzia non l’ha mai vissuta. La premessa diventa fondamentale per comprendere il film Judy, biopic parziale sulla tragica esistenza di questa star, troppo fragile per toccare i 50 anni. Il film, dopo la premiere mondiale a Toronto e l’uscita in Regno Unito – paese che l’ha prodotto – arriva alla Festa del Cinema di Roma, accompagnato dal suo regista, il britannico Rupert Goold, ma senza la colonna portante di tutta l’operazione cinematografica, la protagonista Renée Zellweger che nei panni della Garland supera la perfezione, esibendosi anche dal non facile punto di vista canoro.
Ritraendo l’ultimo anno della sua travagliata esistenza – la star morì a 47 anni – trascorsa a Londra dove era in turnée forzata, Judy tenta di evidenziare le contraddizioni di una personalità bigger than life ma allo stesso tempo inadatta alla vita, perché impreparata fin dai suoi primi anni ad esperirla come un normale essere umano. Il drammatico presente descritto nel film è dunque costellato da flasback sulla Garland bimba e adolescente, imprigionata da Hollywood, che l’ha partorita e tenuta in “incubazione” attraverso i diabolici meccanismi dello studio system. Cresciuta con sensi di colpa per colpe mai avute, e nella totale incapacità di vivere relazioni sane e di crescere i suoi figli, Judy Garland è tuttora l’emblema della crudeltà espressa dal successo prematuro, dagli ingranaggi della macchina fabbricatrice di baby star.
In tal senso il film di Goold è programmatico, “la madre della Garland era gelosa di lei, erano tempi in cui le esigenze pedagogiche non avevano spazio, Judy non conobbe alcuna infanzia”, spiega il regista da sempre interessato a indagare “gli ultimi anni nelle carriere delle star, quando queste iniziano a perdere la forza del proprio talento – in questo caso la voce – e provano a connettersi col pubblico usando nuovi strumenti. Pensiamo oggi a Roger Federer che ogni volta scende in campo è una magia, perché sappiamo a breve non sarà più competitivo”.
Se a Hollywood la Garland aveva perso credito – e soldi, era praticamente al verde e con due figli piccoli da mantenere – a Londra era ancora molto amata. In tal senso il pubblico inglese le tributa un’adorazione senza precedenti, “nonostante la sua voce fosse già roca, appesantita dall’alcol, dalla vita disordinata, dagli psicofarmaci, ma si era costretta a lavorare per dare una casa ai suoi figli in America, dove però non tornò mai più”, aggiunge Goold, riconoscendo nella capacità mimetica ma anche espressiva della Zellweger (“mi piaceva vedere Renée che interpretava Judy e non solo la Garland attraverso di lei”) il cuore del film. Ed in effetti senza la straordinaria performance dell’attrice texana, e il suo sacrificio a un possente trucco quotidiano accompagnato da un training vocale eccezionale, certamente destinata alla candidatura all’Oscar, questo dramma non avrebbe alcun senso di esistere. Fragile narrativamente e drammaturgicamente, rivela tutte le buone intenzioni di un ottimo regista teatrale però lacunoso sul linguaggio cinematografico. Il film uscirà nelle sale italiane il 16 gennaio 2020, di certo speranzoso di rientrare nelle candidature dell’Academy previste il 13 gennaio.
Curioso che in questi giorni alla parallela rassegna Alice nella Città, sempre nell’ambito della Festa capitolina, sia passato un documentario sui danni delle baby star. Si tratta di Bellissime di Elisa Amoruso, centrato sulla figura di Cristina Cattoni e delle sue tre figlie adolescenti Francesca, Giovanna e Valentina Goglino. La donna, oggi 58enne e vibrante lap dancer, ha deliberato fin dalla loro infanzia che le sue figlie dovessero diventare delle dive della moda: facendole posare e sfilare come baby Barbie nel famigerato mondo del fashion, le ha cresciute con un vocabolario esistenziale fatto di provini, successo, trucco, abiti e così lessicando, al punto da aver creato delle vere e proprie bambole viventi. Interessante e ben fatto, il doc si ispira all’omonimo libro di Flavia Piccinni e uscirà prossimamente per Fandango.