Le sentenze della magistratura vanno rispettate. Ma si possono, in qualche caso si devono criticare. E’ sbagliata e pericolosa la sentenza della Corte di Cassazione che ha definitivamente sancito la non sussistenza dell’aggravante mafiosa prevista dall’art. 416bis del codice penale ai traffici della banda di criminali, politici, imprenditori, professionisti che hanno monopolizzato per anni diversi settori amministrativi capitolini e altri affari illeciti.

Una massima giuridica fondamentale è la presunzione di conoscenza del diritto per tutti per coloro che vi sono assoggettati. Ignorantia legis non excusat, l’ignoranza della legge non discolpa. Per questo agli “ermellini” – così sono soprannominati i giudici di Cassazione in virtù di una vezzosa decorazione di pelliccia sulla loro toga – andrebbe imputata una responsabilità speculare, che potrebbe suonare come ignorantia scientiae non excusat, l’ignoranza della scienza non discolpa. La cultura giuridica dominante in Italia è impregnata di un formalismo sterile, esemplificato dall’assenza di lezioni di taglio economico, sociologico o politologico nei corsi di giurisprudenza. Nella loro bolla incantata popolata di norme che disegnano astratte fattispecie giuridiche – spesso malscritte o dai contenuti capziosi, ma di questo il giurista non si preoccupa, se non per avvantaggiarsene esercitando un arbitrario potere interpretativo – magistrati “ignoranti” possono perdere di vista l’oggetto sociale trattato da quelle disposizioni del codice penale, e quindi non riconoscere più le condotte socialmente distruttive che ne scaturiscono. Una cecità selettiva, che in questo caso ha impedito di identificare la mafia romana. Se soltanto i giudici della Cassazione si fossero avventurati in una lettura attenta dei lavori degli scienziati sociali che hanno analizzato l’evoluzione organizzativa delle mafie, le loro migrazioni, la natura del loro “capitale sociale” di contatti fiduciari e relazioni intessute nella cosiddetta area grigia, forse avrebbero realizzato che la loro interpretazione è empiricamente sbagliata e scientificamente insostenibile, oltre che schizofrenica rispetto a precedenti giudizi.

Adottando la cornice interpretativa della sentenza di primo grado, provvisoriamente ribaltata in appello, gli ermellini prospettano l’esistenza a Roma di due distinte associazioni a delinquere “semplici”. La prima dedita a procacciarsi appalti a suon di mazzette grazie alle buone entrature del boss delle cooperative. L’altra impegnata nel business dell’usura e di altri impicci illeciti, con sede aziendale presso il noto distributore di Corso Francia dove il ras Carminati dettava legge. Due mondi paralleli, privi di vasi comunicanti di rilievo penale. Il primo perfettamente sovrapponibile al sovramondo “dei vivi”, popolato da “colletti bianchi” che intrallazzano nei palazzi del potere, il secondo al sottomondo “dei morti”, le strade di Suburra infestate da manovalanza delinquenziale. Eppure sarebbe bastato rileggere con una corretta chiave di interpretazione il passaggio dell’intercettazione del boss Carminati che ha fatto battezzare “mondo di mezzo” quell’inchiesta per capire che la potenza dei padrini dell’organizzazione criminale consisteva proprio nel rendere poroso e permeabile il diaframma che normalmente separa quei due universi, a Roma non più paralleli. “Il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra”, spiega il boss, per poi concludere: “Allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno… e tutto si mischia”.

Non si potrebbe descrivere meglio la funzione di questa “piccola mafia” autoctona, i cui capi sono abili nel mettersi a servizio di una rete di corruzione endemica negli uffici romani e preesistente alla sua nascita, saldandola in un equilibrio ferreo di omertà e rispetto delle “regole del gioco” anche grazie all’incombente “riserva di violenza” messa in campo dal boss Carminati. Il quale – anche questo raccontano gli atti – interviene sbrigativo a sciogliere controversie, terrorizza imprenditori e funzionari non allineati ai suoi voleri solo palesando la propria irritazione, induce al silenzio politici incarcerati. All’occorrenza attinge da quel serbatoio di violenza potenziale, però economizzandone l’impiego: “Gli passo delle stecche per i favori e lavori però un giorno gli ho dovuto menare“. In cambio di questa instancabile opera di supervisione del funzionamento disciplinato dei patti di corruzione è logico che il boss incassi un prezzo, ritagliato dai sontuosi profitti degli appalti vinti a suon di tangenti e così qualificati dall’interfaccia imprenditoriale del boss: “il traffico di droga rende di meno”. Eppure in un’intercettazione il “Re di Roma” si lamenta, visto che ritiene sottovalutati i suoi servizi di governo del traffico di tangenti: “A me già me rode il culo che il guadagno nostro è basso… dije che sennò viene qua il re di Roma, tu sei un sottoposto. E’ il re di Roma che viene qua, io vado, entro dalla porta principale, vede io che gli combino, a me nun me rompesse il cazzo, a me: chiudesse subito la pratica là”.

Come chiamare un potere criminale sovraordinato alla politica e all’amministrazione pubblica: “Questi consiglieri comunali devono sta’ ai nostri ordini. Ma perché io devo sta’ agli ordini tuoi? Te pago, ma vaffa…”? Come definire un centro riconosciuto di autorità che alternando la lusinga del denaro all’aspettativa della ritorsione e del ricatto organizza e dirige attività criminali che investono il mondo della politica e degli appalti? Si tratta di mafia, secondo l’interpretazione dominante nelle scienze sociali. E’ mafia anche se non possiede un “marchio di fabbrica” radicato nell’immaginario collettivo. E’ mafia anche se privilegia la corruzione e coltiva buone relazioni con le “anime belle” del sovramondo della politica e degli affari, ma se necessario, quando qualcuno finge di non capirne le disposizioni, sa farsi intendere parlando il linguaggio brutale della strada. E’ mafia anche se fa valere la sua sovranità non su uno spazio fisico, ma su un perimetro impalpabile di attività illegali che distorcono processi decisionali, procedure, atti amministrativi, scelte politiche e di mercato.

I magistrati devono limitarsi ad applicare le leggi, si dirà, non “fare sociologia”. Eppure l’articolo 416bis del codice penale, sebbene ritagliato sulla conoscenza di Cosa Nostra all’inizio degli anni 80 del secolo passato, si è già mostrato abbastanza duttile, in alcune interpretazioni giurisprudenziali più coraggiose e consapevoli, da consentirne l’impiego anche nel caso di nuove mafie o di mafie tradizionali dislocate “fuori sede”. In presenza, cioè, di gruppi mafiosi dotati di moduli organizzativi più reticolari che gerarchici, che tendono a sostituire corruzione e reputazione criminale all’impiego effettivo della violenza, e che nel mutato ecosistema criminale sono spesso più “efficienti” e meglio attrezzati a dissimulare le proprie attività e a conseguire profitti, potere e prestigio criminale, governo dei mercati illegali. Quelle stesse associazioni mafiose che oggi, grazie alla sentenza della Cassazione sull’inchiesta Mafia Capitale, contano su aspettative più forti di impunità, mentre accanto a loro festeggia quell’oligarchia criminale, corrotta e corruttrice, che annovera segmenti significativi della classe dirigente italiana.

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