Il plenum del Consiglio superiore della magistratura ha approvato la proposta della quinta commissione, relatore il togato Piercamillo Davigo, contraria alla riconferma. Il motivo? Il magistrato ha compromesso "almeno sotto il profilo dell’immagine" il necessario requisito "dell’indipendenza da impropri condizionamenti" per avere mantenuto l’incarico al Dipartimento affari giudiziari della Presidenza del Consiglio anche dopo l'avvio dell’indagine nella quale Rossi avrebbe potuto indagare sul padre dell’allora ministro Maria Elena Boschi
Roberto Rossi, procuratore capo di Arezzo, non è stato confermato nel suo incarico. Con una netta maggioranza il plenum del Consiglio superiore della magistratura ha infatti approvato la proposta della quinta commissione, relatore il togato Piercamillo Davigo, contraria alla riconferma di Rossi. Il motivo? Il magistrato ha compromesso “almeno sotto il profilo dell’immagine” il necessario requisito “dell’indipendenza da impropri condizionamenti” per avere mantenuto l’incarico al Dipartimento affari giudiziari della Presidenza del Consiglio dei ministri anche dopo l’avvio dell’indagine su Banca Etruria, nella quale Rossi avrebbe potuto indagare sul padre dell’allora ministro Maria Elena Boschi. Una situazione rispetto alla quale avrebbe tenuto una condotta “non trasparente” anche nelle informazioni rese al Csm su quella circostanza. In plenum la quinta commissione aveva portato anche un’altra proposta, favorevole alla riconferma di Rossi nell’incarico di procuratore, relatore il togato di Unicost Marco Mancinetti, che ha avuto solo quattro voti.
Il voto era originariamente previsto per ieri, mercoledì 23 ottobre, ma poi è slittato a oggi per la proposta avanzata dal laico di Forza Italia Michele Cerabona, motivata dalla necessità di approfondire la memoria che Rossi ha inviato al Consiglio. Nel documento, il procuratore ha fornito la sua versione dei fatti e cercato di chiarire ogni punto di contestazione sollevato nei suoi confronti. In otto pagine Rossi definisce “clamoroso e sconcertante travisamento dei fatti” ciò che gli viene contestato, ovvero aver svolto un incarico al Dipartimento affari giudiziari e legislativi (Dagl) della Presidenza del consiglio mentre indagava sul crac di Banca Etruria e quindi, potenzialmente, su Pierluigi Boschi, padre dell’allora ministro in carica Maria Elena Boschi. Nella memoria il procuratore Rossi ha spiegato di esser uscito dal Dagl il 31 dicembre 2015, prima dunque del fallimento della banca, che è datato 11 febbraio 2016. Rossi ha anche respinto le accuse di essersi auto-assegnato in questo periodo le prime indagini sul dissesto di Banca Etruria, e di non aver chiesto, dopo aver ricevuto la relazione del terzo ispettore di Bankitalia Giordano Di Veglia, l’insolvenza della banca. Inoltre, nella stessa memoria il procuratore Rossi ha definito “gravissima ingerenza del potere politico su quello giudiziario” il parere negativo espresso dal ministro Bonafede laddove ha negato il cosiddetto concerto sulla conferma. Spiegazioni, quelle di Rossi, che non gli sono servite a convincere il Csm a prolungarli l’incarico per altri 4 anni.