La lobby del petrolio alimenta l’emergenza climatica a suon di denaro, riunioni con i massimi funzionari della Commissione europea, sussidi e sponsorizzazioni. Dal 2010 a oggi le cinque più grandi compagnie del pianeta che operano nel settore di petrolio e gas, ossia BP, Chevron, ExxonMobil, Shell e Total, hanno speso almeno 251 milioni di euro per fare pressione sull’Unione europea e influenzare così le politiche su clima ed energia. A rivelarlo è una ricerca commissionata da Greenpeace EU, Corporate Europe Observatory, Food & Water Europe, Friends of the Earth Europe. Nel dossier non si parla solo delle centinaia di milioni spesi dalle major del settore per “acquistare influenza”, ma anche di diverse tattiche definite “subdole” e utilizzate “per annacquare con successo una legislazione climatica efficace”. Le associazioni che rappresentano queste multinazionali legate ai combustibili fossili si avvalgono a Bruxelles di circa 200 lobbisti e da quando, nel 2014, il presidente Jean-Claude Juncker è entrato in carica, hanno partecipato a 327 riunioni di alto livello con i massimi funzionari della Commissione europea. Una riunione a settimana. I dati sono stati ricavati da quanto le stesse aziende hanno riportato nel registro per la trasparenza delle lobby dell’Ue e dai calendari delle riunioni pubblicati dai commissari europei. “Le grandi compagnie di petrolio e gas stanno causando l’emergenza climatica in corso, in nome di profitti per pochi che hanno un prezzo altissimo per molti” dichiara Luca Iacoboni, responsabile della campagna Clima di Greenpeace Italia.
GLI EFFETTI DEI SOLDI SPESI – BP, Chevron, ExxonMobil, Shell e Total hanno ammesso di aver speso 123,3 milioni di euro per fare pressione sull’Ue tra il 2010 e il 2018. I loro tredici gruppi di lobby legati ai combustibili fossili hanno dichiarato di aver sborsato altri 128 milioni. E per Greenpeace si tratta solo della “punta dell’iceberg”. A cosa è servito? “Gli obiettivi climatici dell’UE per il 2030 – ricorda l’associazione – sono stati concordati senza vincoli concreti per gli Stati membri sul risparmio energetico e con un obiettivo totalmente inadeguato per le energie rinnovabili, mentre il gas resta per tutta l’Europa al centro della strategia a lungo termine che ci guiderà fino al 2050”. Lo stesso Accordo di Parigi non menziona i combustibili fossili, ma apre le porte a molte false soluzioni, come la cattura e lo stoccaggio del carbonio. Una tecnologia che presenta diverse problematiche, perché ritenuta rischiosa, costosa e provvisoria: l’industria dei combustibili fossili da un lato la sponsorizza, dall’altro ammette che non sarà commercialmente operativa prima del 2030. “Troppo tardi – si sottolinea nel rapporto – per un’azione di decarbonizzazione necessaria entro dieci anni”.
LE TATTICHE DELLE LOBBY – Nel frattempo, solo nel 2018, le cinque compagnie petrolifere e hanno realizzato profitti per oltre 82 miliardi di dollari, mentre i loro amministratori delegati hanno incassato quasi 80 milioni. Il gruppo di lobby con il budget maggiore, che ha dichiarato di aver speso 75 milioni di euro per influenzare l’Ue dal 2010 (12 milioni solo nel 2018, ndr), è il Cefic, il Consiglio delle industrie chimiche europee, di cui sono membri tutte le cinque compagnie menzionate nello studio e che dal dicembre 2014 al febbraio 2019, ha ottenuto 80 incontri con la Commissione Europea, più o meno uno ogni 23 giorni. Ma da quando la Commissione Juncker è entrata in carica, i componenti (insieme ai loro gabinetti) che hanno tenuto la maggior parte degli incontri con le lobby del petrolio sono stati Miguel Arias Cañete, commissario per l’Energia e l’azione per il clima (51 riunioni) e i colleghi Maroš Sefcovic (44 riunioni) ed Elżbieta Bieńkowska (20 riunioni). Il record spetta al direttore generale dell’Energia presso la Commissione, Dominique Ristori, che da solo ha partecipato a 54 riunioni. L’influenza dell’industria dei combustibili fossili sul processo decisionale democratico arriva non solo dai suoi soldi e dalle sue riunioni, né si verifica esclusivamente a Bruxelles.
L’ESEMPIO FRANCESE – Basti pensare a quanto è accaduto in Francia nel 2017, quando l’allora ministro Nicolas Hulot annunciò un disegno di legge contro gli idrocarburi. Il primo progetto di legge prevedeva una progressiva eliminazione delle estrazioni, vietando il rinnovo dei permessi di sfruttamento: alcuni progetti di petrolio e gas sarebbero terminati nel 2021, pochi altri entro il 2030. Tuttavia, i documenti ottenuti da Friends of the Earth France rivelano che uno studio legale privato che rappresenta la compagnia petrolifera Vermilion presentò una denuncia al Consiglio di Stato, affermando che la legge avrebbe influenzato le “legittime aspettative” di profitto della società e minacciando di citare in giudizio lo Stato. Il Consiglio di Stato si schierò con le compagnie del petrolio e, in seguito al suo parere, il governo rimosse dal testo le misure più ambiziose. Durante i due mesi di dibattito legislativo, le lobby del settore riuscirono a indebolire ulteriormente la legge, con la versione finale che consente il rinnovo dei permessi di sfruttamento in determinate circostanze dopo la scadenza del 2040. E, una volta approvata la nuova legge, Hulot ha firmato persino più permessi del suo predecessore, per poi segnalare un anno dopo, quando si è dimesso, “la presenza di gruppi di pressione nei circoli del potere”.
L’APPELLO – Le organizzazioni ambientaliste chiedono alla nuova Commissione europea, ai deputati e ai governi di tenere gli interessi economici derivanti dai combustibili fossili fuori dalla politica, con restrizioni simili a quelle dei lobbisti dell’industria del tabacco. “In questi anni – ricorda Greenpeace – il settore dei combustibili fossili è riuscito a ritardare, indebolire e sabotare l’azione dell’Unione europea sull’emergenza climatica, ridimensionando l’importanza degli obiettivi in fatto di energia rinnovabile, efficienza energetica e riduzione dei gas serra, e garantendosi al tempo stesso redditizi sussidi”.
LE RESPONSABILITÀ NELLE EMISSIONI – Questo perché le stesse aziende citate nello studio sono consapevoli di essere state responsabili del 7,4 per cento delle emissioni globali di gas serra tra il 1988 e il 2015 e fanno parte, come rivelato da una recente analisi condotta dal Climate Accountability Institute degli Stati Uniti, delle 20 compagnie che operano nel settore petrolchimico e che hanno causato, direttamente e indirettamente, il 35% di tutte le emissioni globali di anidride carbonica e metano dal 1965 al 2017.
Ambiente & Veleni
Clima, in dieci anni 250 milioni spesi e 371 riunioni con i vertici europei: così i 5 big del petrolio hanno ammorbidito la politica Ue
Dal 2010, le pressioni di BP, Chevron, ExxonMobil, Shell e Total sono avvenute tramite sussidi diretti, sponsorizzazioni e incontri continui (in media uno a settimana) con alti esponenti della Commissione europea: a rivelarlo una ricerca commissionata da Greenpeace EU, Corporate Europe Observatory, Food & Water Europe, Friends of the Earth Europe e che si basa sui dati trasmessi dalle stesse aziende nel registro per la trasparenza delle lobby dell’Ue e dai calendari delle riunioni pubblicati dai commissari europei. Obiettivo (in molti casi raggiunto): "Annacquare con successo una legislazione climatica efficace"
La lobby del petrolio alimenta l’emergenza climatica a suon di denaro, riunioni con i massimi funzionari della Commissione europea, sussidi e sponsorizzazioni. Dal 2010 a oggi le cinque più grandi compagnie del pianeta che operano nel settore di petrolio e gas, ossia BP, Chevron, ExxonMobil, Shell e Total, hanno speso almeno 251 milioni di euro per fare pressione sull’Unione europea e influenzare così le politiche su clima ed energia. A rivelarlo è una ricerca commissionata da Greenpeace EU, Corporate Europe Observatory, Food & Water Europe, Friends of the Earth Europe. Nel dossier non si parla solo delle centinaia di milioni spesi dalle major del settore per “acquistare influenza”, ma anche di diverse tattiche definite “subdole” e utilizzate “per annacquare con successo una legislazione climatica efficace”. Le associazioni che rappresentano queste multinazionali legate ai combustibili fossili si avvalgono a Bruxelles di circa 200 lobbisti e da quando, nel 2014, il presidente Jean-Claude Juncker è entrato in carica, hanno partecipato a 327 riunioni di alto livello con i massimi funzionari della Commissione europea. Una riunione a settimana. I dati sono stati ricavati da quanto le stesse aziende hanno riportato nel registro per la trasparenza delle lobby dell’Ue e dai calendari delle riunioni pubblicati dai commissari europei. “Le grandi compagnie di petrolio e gas stanno causando l’emergenza climatica in corso, in nome di profitti per pochi che hanno un prezzo altissimo per molti” dichiara Luca Iacoboni, responsabile della campagna Clima di Greenpeace Italia.
GLI EFFETTI DEI SOLDI SPESI – BP, Chevron, ExxonMobil, Shell e Total hanno ammesso di aver speso 123,3 milioni di euro per fare pressione sull’Ue tra il 2010 e il 2018. I loro tredici gruppi di lobby legati ai combustibili fossili hanno dichiarato di aver sborsato altri 128 milioni. E per Greenpeace si tratta solo della “punta dell’iceberg”. A cosa è servito? “Gli obiettivi climatici dell’UE per il 2030 – ricorda l’associazione – sono stati concordati senza vincoli concreti per gli Stati membri sul risparmio energetico e con un obiettivo totalmente inadeguato per le energie rinnovabili, mentre il gas resta per tutta l’Europa al centro della strategia a lungo termine che ci guiderà fino al 2050”. Lo stesso Accordo di Parigi non menziona i combustibili fossili, ma apre le porte a molte false soluzioni, come la cattura e lo stoccaggio del carbonio. Una tecnologia che presenta diverse problematiche, perché ritenuta rischiosa, costosa e provvisoria: l’industria dei combustibili fossili da un lato la sponsorizza, dall’altro ammette che non sarà commercialmente operativa prima del 2030. “Troppo tardi – si sottolinea nel rapporto – per un’azione di decarbonizzazione necessaria entro dieci anni”.
LE TATTICHE DELLE LOBBY – Nel frattempo, solo nel 2018, le cinque compagnie petrolifere e hanno realizzato profitti per oltre 82 miliardi di dollari, mentre i loro amministratori delegati hanno incassato quasi 80 milioni. Il gruppo di lobby con il budget maggiore, che ha dichiarato di aver speso 75 milioni di euro per influenzare l’Ue dal 2010 (12 milioni solo nel 2018, ndr), è il Cefic, il Consiglio delle industrie chimiche europee, di cui sono membri tutte le cinque compagnie menzionate nello studio e che dal dicembre 2014 al febbraio 2019, ha ottenuto 80 incontri con la Commissione Europea, più o meno uno ogni 23 giorni. Ma da quando la Commissione Juncker è entrata in carica, i componenti (insieme ai loro gabinetti) che hanno tenuto la maggior parte degli incontri con le lobby del petrolio sono stati Miguel Arias Cañete, commissario per l’Energia e l’azione per il clima (51 riunioni) e i colleghi Maroš Sefcovic (44 riunioni) ed Elżbieta Bieńkowska (20 riunioni). Il record spetta al direttore generale dell’Energia presso la Commissione, Dominique Ristori, che da solo ha partecipato a 54 riunioni. L’influenza dell’industria dei combustibili fossili sul processo decisionale democratico arriva non solo dai suoi soldi e dalle sue riunioni, né si verifica esclusivamente a Bruxelles.
L’ESEMPIO FRANCESE – Basti pensare a quanto è accaduto in Francia nel 2017, quando l’allora ministro Nicolas Hulot annunciò un disegno di legge contro gli idrocarburi. Il primo progetto di legge prevedeva una progressiva eliminazione delle estrazioni, vietando il rinnovo dei permessi di sfruttamento: alcuni progetti di petrolio e gas sarebbero terminati nel 2021, pochi altri entro il 2030. Tuttavia, i documenti ottenuti da Friends of the Earth France rivelano che uno studio legale privato che rappresenta la compagnia petrolifera Vermilion presentò una denuncia al Consiglio di Stato, affermando che la legge avrebbe influenzato le “legittime aspettative” di profitto della società e minacciando di citare in giudizio lo Stato. Il Consiglio di Stato si schierò con le compagnie del petrolio e, in seguito al suo parere, il governo rimosse dal testo le misure più ambiziose. Durante i due mesi di dibattito legislativo, le lobby del settore riuscirono a indebolire ulteriormente la legge, con la versione finale che consente il rinnovo dei permessi di sfruttamento in determinate circostanze dopo la scadenza del 2040. E, una volta approvata la nuova legge, Hulot ha firmato persino più permessi del suo predecessore, per poi segnalare un anno dopo, quando si è dimesso, “la presenza di gruppi di pressione nei circoli del potere”.
L’APPELLO – Le organizzazioni ambientaliste chiedono alla nuova Commissione europea, ai deputati e ai governi di tenere gli interessi economici derivanti dai combustibili fossili fuori dalla politica, con restrizioni simili a quelle dei lobbisti dell’industria del tabacco. “In questi anni – ricorda Greenpeace – il settore dei combustibili fossili è riuscito a ritardare, indebolire e sabotare l’azione dell’Unione europea sull’emergenza climatica, ridimensionando l’importanza degli obiettivi in fatto di energia rinnovabile, efficienza energetica e riduzione dei gas serra, e garantendosi al tempo stesso redditizi sussidi”.
LE RESPONSABILITÀ NELLE EMISSIONI – Questo perché le stesse aziende citate nello studio sono consapevoli di essere state responsabili del 7,4 per cento delle emissioni globali di gas serra tra il 1988 e il 2015 e fanno parte, come rivelato da una recente analisi condotta dal Climate Accountability Institute degli Stati Uniti, delle 20 compagnie che operano nel settore petrolchimico e che hanno causato, direttamente e indirettamente, il 35% di tutte le emissioni globali di anidride carbonica e metano dal 1965 al 2017.
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Roma, 22 feb. (Adnkronos) - "Nessun tumore al cervello e nessuna infezione da polmonite batterica, come erroneamente riportato dalla Direzione sanitaria del Mar Rosso. Mattia è morto per un’emorragia causata da un aneurisma cerebrale e si esclude con certezza la presenza di altre patologie concomitanti. Questo quanto emerge dopo l'esame effettuato dall'Azienda Ospedaliero Universitaria di Udine". Così l'avvocato Maria Virginia Maccari, che assiste i familiari di Mattia Cossettini, morto a 9 anni mentre si trovava in vacanza a Marsa Alam.
"Mattia era felicissimo della vacanza e fino a quella tragica escursione in barca non aveva manifestato alcun sintomo, nemmeno un raffreddore. Tanti sorrisi fino all’ultimo momento, allegro come tutti lo conoscevano, ma durante l’escursione in barca non c’è stata nessuna possibilità di chiamare o di ricevere i soccorsi. Secondo i genitori vi è stata sicuramente una sottovalutazione del quadro clinico iniziale; c’è poi stato un errore di refertazione da parte dei medici dell’ospedale generale governativo di Marsa Alam, che hanno interpretato la Tc senza intervenire poi su Mattia per l’assenza di attrezzature, tenuto solamente in osservazione mentre i sanitari stimavamo le più svariate patologie, dal diabete alla broncopolmonite, citando addirittura il Covid come causa di un’ossigenazione bassa quando invece Mattia non aveva neanche la tosse", spiega.
"Rimasto invece su una lettiga di ospedale, con il cuscino della camera del resort, mentre i genitori tentavano invano un trasferimento presso un altro ospedale. La famiglia sta ancora approfondendo gli aspetti relativi all’incidenza di una corretta e tempestiva diagnosi, ma quello che emerge è la necessità di sensibilizzare il Governo egiziano per favorire protocolli nella gestione delle emergenze sanitarie nella zona del mar Rosso. Il primo ospedale attrezzato è situato a circa tre ore di auto e - sottolinea - non sono disponibili mezzi di trasporto rapidi per raggiungerlo. Probabilmente sarebbe sufficiente un piccolo contributo economico da parte delle numerosissime strutture alberghiere per garantire un servizio sanitario adeguato, oppure realizzare un eliporto per trasferire i pazienti gravi, raggiungendo un luogo idoneo. Si stima la presenza di circa quindici milioni di italiani in Egitto ogni anno, di cui un terzo circa nella zona del Mar Rosso".
"Nonostante tutte le immersioni subacquee effettuate in zona, anche una 'semplice' embolia polmonare diventerebbe critica a causa dell’assenza nelle vicinanze di una camera iperbarica. In alcune situazioni potrebbe fare la differenza anche la refertazione a distanza, facilmente possibile con l’utilizzo della telemedicina e nel caso di Mattia si sarebbe molto probabilmente evitata l'errata interpretazione delle immagini della Tc, fatto che ha di certo avuto un peso psicologico importante sui genitori. Non è chiaro se il tempo perso, dai primi sintomi interpretati in modo superficiale dai medici, all’incapacità di intervenire in modo attivo presso l’ospedale di Marsa Alam, potessero cambiare l’esito della vicenda. È però evidente come, qualsiasi necessità sanitaria improvvisa, che possa essere clinicamente complessa ma che nel nostro contesto sociale risulti gestibile, le possibilità di sopravvivenza in una zona così turistica e famosa siano sorprendentemente scarse. I genitori di Mattia, Marco e Alessandra, si augurano che la morte di loro figlio possa servire ad avviare questo adeguamento sanitario in Egitto per il bene dí tutti gli altri turisti italiani, non consapevoli della situazione fatiscente che potrebbero scoprire appena varcate le mura dei lussuosi resort", conclude.
Milano, 21 feb. (Adnkronos) - Con una produzione dal valore di 277 milioni di euro nel 2023, la Lombardia è la quarta regione italiana più rilevante nel comparto florovivaistico. E' quanto afferma la Coldiretti regionale, sulla base del primo Rapporto nazionale sul settore realizzato dal centro studi Divulga e da Ixe’ con Coldiretti, in occasione della giornata conclusiva di Myplant&Garden, una delle più importanti manifestazioni internazionali per i professionisti delle filiere del verde in corso a Rho Fiera Milano.
In Lombardia, precisa la Coldiretti regionale su dati Registro delle Imprese, sono oltre 2.500 le aziende florovivaistiche, a cui vanno aggiunte quelle che si dedicano alla cura e alla manutenzione del paesaggio, per una filiera del verde lombarda che in totale può contare su più di 7.900 imprese. Sulla base del rapporto Divulga/Ixè, nel 2024 il florovivaismo Made in Italy ha raggiunto il valore massimo di sempre a quota 3,3 miliardi di euro, grazie anche al traino dell’export che chiuderà l’anno a 1,3 miliardi, ma sulle aziende nazionali pesa oggi la difficile situazione internazionale, a partire dalla guerra in Ucraina. Proprio a causa del conflitto, le aziende hanno subito un aumento dei costi del +83% per i prodotti energetici e del +45% per i fertilizzanti rispetto al 2020, oltre a un +29% per altri input produttivi quali sementi e piantine.
Costi in progressivo aumento, che ancora fanno fatica ad essere riassorbiti, tanto più se si considera la concorrenza sleale che pesa sulle imprese tricolori a causa delle importazioni a basso costo dall’estero, dove non si rispettano le stesse regole in termini di utilizzo dei prodotti fitosanitari, ma anche di tutela dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente.
Non va poi trascurato, avverte Coldiretti, l’impatto dei cambiamenti climatici: secondo il rapporto Divulga/Ixe’ due aziende agricole su tre (66%) hanno subito danni nell’ultimo triennio a causa di eventi estremi, tra grandinate, trombe d’aria, alluvioni e siccità che a più riprese hanno interessato il territorio nazionale. Il risultato di tutti questi fattori è che più di un terzo delle aziende florovivaistiche italiane denuncia difficoltà economiche.
Un quadro dinanzi al quale Coldiretti chiede misure di sostegno alle imprese per contrastare i cambiamenti climatici che, oltre agli eventi estremi, hanno moltiplicato le malattie che colpiscono le piante, spesso peraltro diffuse a causa delle importazioni di prodotti stranieri.
Ma serve anche puntare sulla promozione dei prodotti 100% Made in Italy, mettendone in risalto l’elevato valore ambientale, oltre che gli effetti positivi dal punto di vista della salute e della lotta all’inquinamento. Importante anche una maggiore considerazione per il settore all’interno della Politica agricola europea e, di riflesso, nelle politiche di sviluppo rurale.
Milano, 21 feb. (Adnkronos) - Con una produzione dal valore di 277 milioni di euro nel 2023, la Lombardia è la quarta regione italiana più rilevante nel comparto florovivaistico. E' quanto afferma la Coldiretti regionale, sulla base del primo Rapporto nazionale sul settore realizzato dal centro studi Divulga e da Ixe’ con Coldiretti, in occasione della giornata conclusiva di Myplant&Garden, una delle più importanti manifestazioni internazionali per i professionisti delle filiere del verde in corso a Rho Fiera Milano.
In Lombardia, precisa la Coldiretti regionale su dati Registro delle Imprese, sono oltre 2.500 le aziende florovivaistiche, a cui vanno aggiunte quelle che si dedicano alla cura e alla manutenzione del paesaggio, per una filiera del verde lombarda che in totale può contare su più di 7.900 imprese. Sulla base del rapporto Divulga/Ixè, nel 2024 il florovivaismo Made in Italy ha raggiunto il valore massimo di sempre a quota 3,3 miliardi di euro, grazie anche al traino dell’export che chiuderà l’anno a 1,3 miliardi, ma sulle aziende nazionali pesa oggi la difficile situazione internazionale, a partire dalla guerra in Ucraina. Proprio a causa del conflitto, le aziende hanno subito un aumento dei costi del +83% per i prodotti energetici e del +45% per i fertilizzanti rispetto al 2020, oltre a un +29% per altri input produttivi quali sementi e piantine.
Costi in progressivo aumento, che ancora fanno fatica ad essere riassorbiti, tanto più se si considera la concorrenza sleale che pesa sulle imprese tricolori a causa delle importazioni a basso costo dall’estero, dove non si rispettano le stesse regole in termini di utilizzo dei prodotti fitosanitari, ma anche di tutela dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente.
Non va poi trascurato, avverte Coldiretti, l’impatto dei cambiamenti climatici: secondo il rapporto Divulga/Ixe’ due aziende agricole su tre (66%) hanno subito danni nell’ultimo triennio a causa di eventi estremi, tra grandinate, trombe d’aria, alluvioni e siccità che a più riprese hanno interessato il territorio nazionale. Il risultato di tutti questi fattori è che più di un terzo delle aziende florovivaistiche italiane denuncia difficoltà economiche.
Un quadro dinanzi al quale Coldiretti chiede misure di sostegno alle imprese per contrastare i cambiamenti climatici che, oltre agli eventi estremi, hanno moltiplicato le malattie che colpiscono le piante, spesso peraltro diffuse a causa delle importazioni di prodotti stranieri.
Ma serve anche puntare sulla promozione dei prodotti 100% Made in Italy, mettendone in risalto l’elevato valore ambientale, oltre che gli effetti positivi dal punto di vista della salute e della lotta all’inquinamento. Importante anche una maggiore considerazione per il settore all’interno della Politica agricola europea e, di riflesso, nelle politiche di sviluppo rurale.
Milano, 21 feb. (Adnkronos) - Con una produzione dal valore di 277 milioni di euro nel 2023, la Lombardia è la quarta regione italiana più rilevante nel comparto florovivaistico. E' quanto afferma la Coldiretti regionale, sulla base del primo Rapporto nazionale sul settore realizzato dal centro studi Divulga e da Ixe’ con Coldiretti, in occasione della giornata conclusiva di Myplant&Garden, una delle più importanti manifestazioni internazionali per i professionisti delle filiere del verde in corso a Rho Fiera Milano.
In Lombardia, precisa la Coldiretti regionale su dati Registro delle Imprese, sono oltre 2.500 le aziende florovivaistiche, a cui vanno aggiunte quelle che si dedicano alla cura e alla manutenzione del paesaggio, per una filiera del verde lombarda che in totale può contare su più di 7.900 imprese. Sulla base del rapporto Divulga/Ixè, nel 2024 il florovivaismo Made in Italy ha raggiunto il valore massimo di sempre a quota 3,3 miliardi di euro, grazie anche al traino dell’export che chiuderà l’anno a 1,3 miliardi, ma sulle aziende nazionali pesa oggi la difficile situazione internazionale, a partire dalla guerra in Ucraina. Proprio a causa del conflitto, le aziende hanno subito un aumento dei costi del +83% per i prodotti energetici e del +45% per i fertilizzanti rispetto al 2020, oltre a un +29% per altri input produttivi quali sementi e piantine.
Costi in progressivo aumento, che ancora fanno fatica ad essere riassorbiti, tanto più se si considera la concorrenza sleale che pesa sulle imprese tricolori a causa delle importazioni a basso costo dall’estero, dove non si rispettano le stesse regole in termini di utilizzo dei prodotti fitosanitari, ma anche di tutela dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente.
Non va poi trascurato, avverte Coldiretti, l’impatto dei cambiamenti climatici: secondo il rapporto Divulga/Ixe’ due aziende agricole su tre (66%) hanno subito danni nell’ultimo triennio a causa di eventi estremi, tra grandinate, trombe d’aria, alluvioni e siccità che a più riprese hanno interessato il territorio nazionale. Il risultato di tutti questi fattori è che più di un terzo delle aziende florovivaistiche italiane denuncia difficoltà economiche.
Un quadro dinanzi al quale Coldiretti chiede misure di sostegno alle imprese per contrastare i cambiamenti climatici che, oltre agli eventi estremi, hanno moltiplicato le malattie che colpiscono le piante, spesso peraltro diffuse a causa delle importazioni di prodotti stranieri.
Ma serve anche puntare sulla promozione dei prodotti 100% Made in Italy, mettendone in risalto l’elevato valore ambientale, oltre che gli effetti positivi dal punto di vista della salute e della lotta all’inquinamento. Importante anche una maggiore considerazione per il settore all’interno della Politica agricola europea e, di riflesso, nelle politiche di sviluppo rurale.
Gaza, 22 feb. (Adnkronos) - Gli ostaggi israeliani Eliya Cohen, Omer Shem Tov e Omer Wenkert sono stati trasferiti alla Croce Rossa Internazionale dopo essere saliti sul palco a Nuseirat, nel centro di Gaza, prima del rilascio da parte di Hamas.
Roma, 22 feb. (Adnkronos Salute) - "In Italia sono sempre più giovani medici attratti dalla ginecologia oncologica: questa specializzazione conta bravi chirurghi intorno ai 45 anni, in Italia sono circa 50, tra cui molte donne. E loro saranno tra i protagonisti domani del simposio 'Innovation in Gyn Onc', appuntamento voluto dalla Società italiana di ginecologia e ostetricia all’interno di Esgo", European Gynaecological Oncology Congress, in corso fino a domenica a Roma (Hotel dei Congressi all’Eur). Così all’Adnkronos Salute Vito Trojano, presidente di Sigo alla vigilia del meeting all’interno del Congresso Esgo 2025, un'esperienza formativa con oltre 50 sessioni scientifiche che in questa tre giorni di lavori presentano gli ultimi sviluppi medici e scientifici nella ricerca, nel trattamento e nella cura dei tumori ginecologici, tenuti da esperti di fama mondiale.
"Sarà una giornata molto importante perché non solo è un connubio fra la Società europea di ginecologia oncologica e la Sigo – spiega Trojano – ma perché dedicata alle nuove generazioni. Obiettivo: poter fare in modo che la Ginecologia oncologica sia sempre più attrattiva e di interesse per i giovani che aspirano a fare i medici".
Tra i temi al centro del simposio, nuove proposte per la vaccinazione e lo screening del cancro cervicale, prevenzione del cancro ovarico oltre la chirurgia, medicina di precisione in oncologia ginecologica, novità dalla biopsia liquida, algoritmi terapeutici nel carcinoma ovarico di prima linea, efficacia e sopravvivenza a lungo termine con gli inibitori di Parp. E ancora: la salute digitale in oncologia ginecologica, telechirurgia, telesonografia, teleconsulenza e Hipec (chemioterapia ipertermica intraperitoneale) in oncologia ginecologica. "Ampio spazio sarà dato ovviamente alle nuove terapie mediche, alle tecniche chirurgiche e all’Intelligenza artificiale con cui i futuri chirurghi si addestrano e si formano", conclude Trojano.
Gaza, 22 feb. (Adnkronos) - A Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza, verranno rilasciati tre ostaggi (Omer Shem Tov, Eliya Cohen e Omer Wenkert) rapiti il 7 ottobre, anziché quattro come si pensava in precedenza. Il quarto ostaggio, Hisham al-Sayed, rapito nel 2015, verrà liberato in un altro luogo e senza una cerimonia pubblica. I veicoli della Croce Rossa sono presenti a Nuseirat, ma sembra che ci potrebbe essere ritardo nella consegna.