Un “dirigente della mafia catanese”, vicino al superboss Nitto Santapaola, finito all’ergastolo per due omicidi con il vizio della fuga: per due volte, infatti, si è dato alla latitanza. A volerla sintetizare in un rigo è questa la biografia Sebastiano Cannizzaro, detto Nuccio, 65 anni, da nove detenuto in regime di carcere duro. Adesso un po’ meno. Cannizzaro, infatti, ha vinto una battaglia di cui beneficeranno alcune centinaia di mafiosi che come lui non hanno intenzione di collaborare. Anche quelli che a un certo punto volevano ammazzarlo. Il motivo? Una faida interna a Cosa nostra, una sorta di derby siciliano fatto di omicidi e tradimenti: i boss palermitani fedeli a Totò Riina contro quelli catanesi vicini a Nitto Santapaola. Tra questi ultimi c’era anche lui, Sebastiano “Nuccio” Cannizzaro, il boss tornato agli onori della cronaca perché è riuscito a farsi dare ragione dalla corte Costituzionale. Era di Cannizzaro uno dei due ricorsi che ha portato la Consulta a giudicare come incostituzionale l’ergastolo ostativo, cioè l’articolo dell’ordinamento penitenziario che esclude la possibilità dei permessi premio per i condannati che non abbiano collaborato con la giustizia. Fino all’altro ieri bastava dimostrare di aver cambiato vita, fornendo agli inquirenti anche informazioni non utili alle indagini per avere la possibilità di accedere ai permessi premio. Cannizzaro non ha mai fatto neanche questo: perché? “Sono accusato di omicidio ma non ho mai ucciso nessuno. È scritto anche nelle sentenze. Dunque cosa avrei potuto raccontare? Avrei dovuto dire bugie per ottenere i benefici?”, ha detto tramite il suo avvocato,Valerio Vianello Accoretti, al quotidiano La Stampa. Un’intervista in cui Cannizzaro ha dichiarato di non essere “mai stato” pericoloso.
Il suo curriculum giudiziario racconta un’altra storia. Per esempio racconta che Cannizzaro è cugino di Nitto Santapaola, capo della famiglia mafiosa di Catania, tra i boss condannati per le stragi: è dopo l’arresto di Santapaola che Cannizzaro guadagna posizioni di potere tra i clan etnei. Anche perché è nipote di Giorgio Cannizzaro, ritenuto uno degli elementi chiave della cosca, inviato a Roma dai boss, coinvolto nell’affaire Telekom-Serbia e in contatto con prelati e massoni, tra cui Corrado Labisi, arrestato nel settembre dello scorso anno. Legami che ne fanno un “dirigente della mafia catanese“, come scrivono i giudici nelle sentenze. Cannizzaro, infatti, è finito all’ergastolo dopo essere stato condannato in via definitiva per associazione mafiosa e per due omicidi del 1998. Per due volte è stato latitante e per due volte i poliziotti lo hanno arrestato: ora incassa una vittoria giudiziaria fondamentale per lui e tutti i 900 ergastolani che non hanno mai collaborato con la giustizia. “Capisco che l’opinione pubblica non sarà mai dalla nostra parte. Ma per noi ciò che vale è la legge. E la Consulta ha detto che anche noi abbiamo dei diritti da difendere”, ha detto lui al quotidiano. Un linguaggio che conferma quanto scrivevano gli inquirenti su di lui nel 1998, all’epoca del primo arresto: Cannizzaro “sovrasta gli altri per acume e sottigliezza e gli altri gli riconoscono tale superiorità di ordine intellettivo” ed era lui a “relazionare gli associati sulle iniziative prese nel settore delle estorsioni” e a fare da paciere “per dipanare i contrasti sorti per l’aggiudicazione di certi lavori nella zona di Bronte”.
Negli equilibri della Cosa nostra degli anni novanta si riconosceva nella decisione di inabissare l’organizzazione presa da Bernardo Provenzano dopo le strage. “Comunque iu penso che Pietro Aglieri e Provenzano sono di idee diverse”, diceva intercettato riferendosi a una spartizione degli appalti: all’epoca Provenzano e Aglieri erano praticamente il numero uno e il numero due di Cosa nostra. La sua prima esperienza da latitante invece risale ai primi anni novanta, quando venne condannato dalla corte d’Assise di Catania all’ergastolo per l’omicidio di Salvatore Leocata, ucciso e torturato nel 1983. Gli agenti della Criminalpol e delle Squadre Mobili di Catania e Siracusa lo acciuffarono dopo quattro anni sul lungomare di Pachino: nel gennaio 1996 però fu assolto dalla corte d’Appello e scarcerato. Tornò in galera due anni dopo, proprio mentre i corleonesi stavano organizzando un piano di morte per farlo fuori. Poi nel 2007, tra la sentenza di primo grado e quella di Appello, Cannizzaro si diede nuovamente alla latitanza. “Ma credo che lo fece perché temeva seriamente di essere ucciso”, sostiene il suo legale.
Con Totò Riina e Leoluca Bagarella in carcere, la famiglia era stata affidata a Vito Vitale (detto Fardazza) che stava portando avanti un golpe all’interno del clan catanese: con l’affiliazione di Santo Mazzei (boss inviso a Santapaola) da parte di Riina, i corleonesi volevano prendersi Cosa nostra sotto l’Etna. Dell’omicidio di Cannizzaro venne incaricato Angelo Mascali, fedelissimo dei Santapaola, che nel frattempo riferì tutto a Cannizzaro. “E allora (Vitale) mi fa la richiesta di uccidere al figlio di Benedetto Santapaola (Vincenzo), Nuccio Cannizzaro, Antonio Motta e Maurizio Zuccaro. Mi dice: questi si devono uccidere così ti prendi tutto in mano tu e Massimo Vinciguerra”, raccontò ai pm Angelo Mascali, mafioso del clan Santapaola, poi divenuto collaboratore di giustizia. Quando Cannizzaro venne a sapere il piano, ordinò l’omicidio dei presunti “traditori”: Massimiliano Vinciguerra e Francesco Riela.
Il primo era un fedelissimo di Santo Mazzei: scomparve nel nulla per poi essere ritrovato strangolato all’interno di un bidone; al secondo invece avrebbero dovuto sparare tredici colpi. Il condizionale è d’obbligo: sbagliarono persona, uccidendo il fratello Gianni. Per questi due omicidi la corte d’Assise condannò all’ergastolo Cannizzaro, riconoscendo il suo “ruolo di dirigente” nella mafia catanese e i giudici d’Appello gli negarono “le attenuanti generiche chieste dalla difesa” non ravvisando “aspetti idonei a giustificare un trattamento sanzionatorio inferiore ai minimi edittali o comunque ridotti rispetto a quanto statuito dai primi giudici”. “Abbiamo chiesto la revisione della sentenza, ma la Cassazione nonostante ci fossero evidenti incongruenze tra la sentenza di primo grado e quella di Appello, rigettò”, dice l’avvocato Valerio Vianello Accoretti che da anni difende Cannizzaro nelle aule di giustizia. “Per circa nove anni è stato detenuto in regime di 41 bis, ma poi i giudici hanno ritenuto che non sussistessero legami con l’organizzazione mafiosa”, aggiunge il legale, che difende altre quaranta persone nella stessa condizione giudiziaria di Cannizzaro. “Chiariamo che qui non si sta discutendo di chi è ristretto al 41 bis – continua -, credo che su 100 casi simili a quello di Cannizzaro, almeno in 70 si tratta di persone che hanno rotto con il passato da molto tempo. Sono spesso ultrasettantenni che hanno rescisso tutti i legami con la vita che avevano fuori. Molti non se la sentono di collaborare per varie ragioni, soprattutto per tutelare i familiari”.