di Andrea Taffi

L’articolo 416 bis del Codice Penale dice che l’associazione a delinquere è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva per commettere delitti.

Questo articolo è stato introdotto nel nostro Codice Penale con la Legge n. 646 del 1982 (la Legge Rognoni-La Torre) per colmare un inaccettabile vuoto normativo, ossia l’assenza di una grave e particolare fattispecie di associazione a delinquere (quella mafiosa, appunto) che fino ad allora il Codice Penale ignorava. L’illuminato legislatore del 1982 sentì forte e improcrastinabile l’esigenza di adattare il diritto penale alla società italiana, consentendo con ciò di punire i mafiosi con pene che fossero proporzionali alla gravità dei reati da loro commessi, laddove esercitati con le modalità tipiche del metodo mafioso.

I fatti criminali di Roma riconducibili alle gesta di Salvatore Buzzi, di Massimo Carminati e di tutti gli altri imputati, fatti che una efficace sintesi giornalistica aveva definito “Mafia capitale”, sono stati oggetto dei tre gradi di giudizio previsti dal nostro ordinamento processuale, e tutti noi abbiamo assistito a una sorta di altalena dei giudici in relazione alla sussistenza (non riconosciuta nel primo grado; riconosciuta in appello; negata definitivamente in Cassazione) del metodo mafioso in merito al comportamento criminale di soggetti non propriamente lo stereotipo del mafioso tradizionale.

Ora, è da ritenere che la Corte di Cassazione, negando l’associazione di stampo mafioso, abbia applicato alla lettera il tenore dell’articolo 416 bis del Codice Penale, riscontrando l’oggettiva assenza di metodologia prettamente mafiosa nella condotta criminosa di Buzzi e soci. E qui (secondo me) si pone il problema, nel senso che, una volta di più, la legislazione italiana, su temi di natura penale importanti e delicati, non sembra essere al passo coi tempi. Con ciò voglio dire che per mafia, per metodo mafioso, per associazione mafiosa non si può più intendere il modello presente all’epoca della Legge Rognoni-La Torre.

La mafia (genericamente intesa) da allora è molto cambiata, ha travalicato i tradizionali confini meridionali della nostra Penisola, si è radicata praticamente in tutta Italia. E tutto questo ha portato a un mutamento genetico della mafia, al mutamento, cioè, delle modalità operative del suo operato criminale. La mafia ha assoldato non più (e non solo) i tradizionali picciotti che abbiamo visto rinchiusi nelle gabbie del maxiprocesso, ma ha accolto tra le sue file anche soggetti criminali che agiscono, se non con gli identici strumenti intimidatori della mafia tradizionale, di certo con un approccio mentale e una struttura organizzativa che fa dell’efficienza, dell’intimidazione, dell’omertà e della paura il proprio marchio di fabbrica, un marchio concettualmente mafioso.

Quindi, se vogliamo che i giudici condannino gli imputati (ritenuti mafiosi tout court) alle pene che questi effettivamente meritano è necessario che il legislatore riveda l’impostazione di fondo dell’articolo 416 bis del Codice Penale, e come il legislatore del 1982 lo adatti alla nuova realtà criminale italiana.

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