Dieci uomini armati, sette in uniforme e tre in borghese. La casa è circondata. “Venga con noi, niente storie. Ci segua“, urlano da dietro la porta. Sono le quattro di notte, a Istanbul. Dall’altra parte, all’interno, non c’è un pericoloso criminale. Ma un giornalista. Hakan Demir, responsabile del sito del giornale di sinistra BirGün, sobbalza sul divano. “Stavo guardando una serie tv, ero tornato tardi dalla redazione e non avevo sonno”. Il tempo di realizzare quello che sta accadendo ed è già sul pianerottolo. “Che ho fatto?”, domanda. Non riceverà risposta, sino al mattino successivo. E passerà sei ore in cella.
Dal 9 ottobre, quando il governo di Recep Erdogan ha avviato l’operazione Spring Peace nel nord della Siria contro l’amministrazione curda, in patria sono state arrestate 121 persone e 500 sono finite sotto indagine, compresi i due segretari del partito filo-curdo Hdp (Partito democratico dei popoli), Sezai Temelli e Pervin Buldan. Il motivo? “Chi chiama questo intervento ‘guerra’ sta commettendo un atto di tradimento nei confronti dello Stato”. Parole del ministro dell’Interno, Süleyman Soylu. Che ha aggiunto: “Stiamo eliminando i terroristi. È semplice da capire”. E i giornalisti che hanno passato guai dall’inizio dell’offensiva – e di cui si ha notizia – sono stati due: Fatih Gökhan Diler, responsabile news della testata online Diken, e proprio Hakan Demir. L’accusa: propaganda terroristica, il più delle volte, o incitamento all’odio, come nel caso del giornalista di BirGün. Già, perché dopo l’avvio della campagna militare, ha pubblicato le dichiarazioni di uno dei vertici delle Ypg, i battaglioni curdi alleati degli Stati Uniti fino all’inizio di ottobre e considerati da sempre, da parte della Turchia, terroristi. “Perché lo hai fatto?”, gli domanda il procuratore, in cella, dopo l’arresto. “Li hai contattati direttamente? Come?”.
“Sono stato rilasciato dopo qualche ora” racconta Demir al Fatto.it, “nel Paese c’è stato un bel clamore: sui social, da parte di intellettuali, giornalisti, persone famose. Può essere che abbiano condizionato il procuratore”. In Turchia è un copione già visto: dopo il fallito golpe del 2016, PEN International, Platform for Independent Journalism e altre associazioni hanno contato 319 arresti nei confronti di giornalisti (circa 170 sarebbero ancora in carcere). “Siamo un giornale di opposizione. E da quando siamo nati, 14 anni fa, siamo stati costretti ad affrontare incriminazioni, processi, sentenze. Spesso Erdogan definisce chi lo critica un ‘terrorista’. Oppure, nei periodi caldi come questo o di altre operazioni militari, parla di ‘nemici interni’. Chi amministra la giustizia prende le sue parole come ordini e agisce di conseguenza. Ma i turchi sono stanchi di questa oppressione. Per questo Erdogan ha perso città fondamentali come Istanbul e Ankara“.
Al di là delle sparate più o meno bellicose su Twitter di Donald Trump, che nei giorni scorsi aveva scritto di voler “distruggere l’economia turca qualora il governo superasse i limiti (nella guerra ai curdi, ndr)”, il Paese della Mezzaluna non sta vivendo un bel momento: nel 2018 è entrato per la prima volta, dal 2009, in recessione tecnica; contemporaneamente, si trova stretto nella morsa della svalutazione della propria moneta e dell’impennata di inflazione (scesa comunque al di sotto del 10%, a settembre, per la prima volta dopo due anni) e rendimenti sovrani. “L’economia sta precipitando” spiega Demir, “le persone che faticano a soddisfare i bisogni primari sono sempre di più. Un’operazione militare è perfetta, per il governo, per nascondere i problemi sotto il tappeto”. Una buona fetta della popolazione è esasperata. Eppure, secondo l’analisi del giornalista di BirGün, quando il Paese deve affrontare una guerra, nella società scatta una specie di molla: “A eccezione dei curdi, il popolo turco è incline a supportare i soldati sul campo. Anche le persone che non condividono le posizioni dell’Akp (il partito della Giustizia e dello Sviluppo del presidente in carica, ndr) si comportano così. ‘Sono nostri figli, nostri fratelli e amici’ dicono. Quando inizia una guerra, le critiche nei confronti di Erdogan il più delle volte cessano“.
Poco prima della tregua di 120 ore siglata da Turchia e Usa, Trump aveva firmato le prime sanzioni nei confronti dell’alleato della Nato. I Paesi membri dell’Unione europea, allo stesso tempo, avevano fatto sapere di impegnarsi per sospendere, in futuro, la fornitura di armi. “Niente che possa spaventare Erdogan e le élite“, è l’opinione, netta, di Demir. “Mentre i poveri e la classe media faticano, i ricchi stanno diventando sempre più ricchi. Sanzioni o no, non cambierà nulla. Le persone hanno paura, è vero. Ma se la narrazione di politici e media trasformerà le misure in un attacco imperialista dell’Occidente, la popolazione non si lamenterà più di tanto”.
Twitter: @AlbMarzocchi e @GianniRosini