Quanto tempo serve ad un laureato italiano per fare il primo passo nel sistema scolastico britannico, per diventare insegnante? Venticinque minuti. O almeno, così è successo ad Antonio Moraca, professore di latino e italiano che da 5 anni vive e lavora a Bristol, nel Regno Unito. “Non dico che sia stato facile – racconta – ho dovuto studiare per la prova di ingresso, frequentare per dieci mesi il corso per l’abilitazione, fare il tirocinio, i colloqui. Ma dal punto di vista burocratico è stato tutto estremamente semplice. E potevo contare sulle borse di studio del governo per le spese e il mantenimento“.

Antonio si laurea con lode alla Federico II di Napoli in Filologia Moderna e decide di partire per un’esperienza all’estero: arriva a Bristol, con la speranza di poter poi approdare negli Stati Uniti per un dottorato. “Non penso ci sia bisogno di elencare tutti i motivi per cui non volevo fare ricerca in Italia. Valeva la pena passare un po’ di tempo a Bristol per perfezionare la lingua, mentre aspettavo una risposta dagli Usa“. Per un periodo si mantiene lavorando in una catena di ristoranti di sushi: il dottorato non va in porto, e Antonio decide di dedicarsi all’insegnamento. Tra un turno da cameriere e l’altro esplora il sito del ministero dell’istruzione italiano per capire come diventare professore. “Mi barcamenavo tra un iter burocratico e l’altro per capire a quale classe di concorso accedere, che documentazione presentare, marca da bollo, pec…C’erano tante cose da considerare: meglio iniziare come professore di sostegno e accumulare punteggio? Scuola media o superiore? In quale regione? Ma soprattutto, mi chiedevo: dove li trovo i soldi per pagare il tirocinio formativo attivo?”.

La svolta arriva per caso, dal finestrino di un autobus. Antonio sta tornando a casa, quando per strada nota un tabellone per le affissioni che recita: “Get into teaching, your first step towards an amazing and fulfilling career”. Entra nell’insegnamento, il primo passo verso una straordinaria carriera. “Lo spot era sui cartelloni e circolava anche in televisione, non ho dovuto cercare molto. Diciamo che loro hanno trovato me: ho fatto subita una breve ricerca con lo smartphone, mi rimandavano al sito del governo dove c’era una sezione dedicata all’abilitazione all’insegnamento. Un video spiegava passo dopo passo come compilare la domanda, da mandare a tre università. Ebbene, con una mail, quindi gratis, avevo fatto il mio primo passo verso una carriera da insegnante. Tempo impiegato: venticinque minuti”.

Due settimane dopo, la University of West of England lo convoca per un colloquio e una prova attitudinale per l’insegnamento di italiano e francese. La prova da affrontare è “ardua ma non impossibile”: una volta superata, ad Antonio viene offerto un posto per ottenere l’abilitazione all’insegnamento. “La cosa interessante è che il governo offriva borse di studio che arrivavano fino a 20mila sterline per chi era laureato col massimo dei voti”, spiega. Soldi che sarebbero serviti ai candidati per pagare le spese di viaggio, di trasporto e di sostentamento per raggiungere gli istituti scolastici dove si sarebbe svolto il tirocinio, seguire le lezioni all’università, e mantenersi durante il corso, che durava da settembre a giugno. “Inoltre, si poteva fare richiesta di un prestito di 9mila sterline, da restituire in piccolissime rate soltanto se si ottiene una cattedra e con uno stipendio non inferiore a 21.500 sterline l’anno, con le quali pagare le spese del corso“. Abituato al sistema italiano, un percorso così lineare sembra un miraggio: “Ora con la Brexit ottenere le borse di studio è più difficile. Io ho un contratto di lavoro, quindi non mi preoccupo per il futuro, ma il principale cambiamento che tutti sentiamo è il cambio di valore della sterlina – quando sono arrivato valeva 1 euro e 45, adesso 1,12 o giù di lì”.

Adesso Antonio insegna italiano e latino a ragazzi dagli 11 ai 18 anni. “La cosa che mi preme sottolineare è che sono arrivato a Bristol per la prima volta a febbraio 2014, a settembre 2015 ho firmato un contratto a tempo indeterminato“. Il paragone con il sistema italiano è inevitabile: “Entrare nel sistema italiano è così complicato che non lo auguro a nessuno: concorsi su concorsi, esami integrativi, scorrimenti. Senza sapere in che angolo del Paese finirai, in Veneto o in Sicilia. Qui le scuole pubblicano ogni anno i posti che si liberano man mano, così ogni professore può controllarli e mandare una candidatura per quelli che ritiene interessanti, accompagnandola con due lettere di referenze”.

Racconta la differenza tra i due sistemi anche nella pratica quotidiana: “Veniamo osservati, ci sono risultati e obiettivi che noi dobbiamo raggiungere. E quando dico noi, intendo tutti, inglesi e non”. Gli insegnanti inoltre sono “caldamente invitati” a frequentare almeno una volta l’anno un corso di aggiornamento a spese della scuola. “Un mio aumento di stipendio in parte dipende anche dai risultati delle mie classi. In Italia i sindacati non permetterebbero mai una cosa del genere. Ma quando io ero alle superiori avrei voluto che qualcuno controllasse come i professori facevano il loro lavoro”.

Antonio testimonia la grande presenza di italiani negli istituti d’oltremanica, soprattutto nei laboratori di ricerca: “A volte, da quanti connazionali vedo negli atenei britannici, penso che la ricerca in Inghilterra si regga sulle spalle degli italiani. Ovviamente è un’iperbole, ma sono moltissimi: mi trovavo in Cornovoglia pochi giorni fa con amici, e un dottorando di Sheffield mi ha detto che nel suo dipartimento sono quasi tutti italiani. Ed è comprensibile, perché i soldi spesi fuori per la ricerca sono veramente tanti, com’è giusto che sia se si vuole rimanere sempre aggiornati e competitivi. In Italia i politici dicono sempre ‘prima gli italiani’, qui si dà per scontato ‘prima i più bravi'”.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Fuga dei cervelli, Fioramonti: “È emergenza. Per ogni laureato che se ne va addio a 250mila euro di nostre tasse”

next
Articolo Successivo

Migrantes, nel 2018 oltre 128mila italiani emigrati all’estero: in 13 anni aumentati del 70%

next