La sera di domenica 20, lo spoglio delle schede elettorali durante la votazione che opponeva Evo Morales a Carlos Mesa fu sospeso. Lunedì, alla ripresa del conteggio, Morales risultò vincitore su Mesa per circa dieci punti in percentuale, 47% contro 36,5%. Le proteste orchestrate dall’opposizione esplosero violente e i manifestanti, concentrati soprattutto a La Paz, appiccarono il fuoco a diversi seggi elettorali, sradicando senza tanti complimenti la statua eretta alla memoria di Hugo Chávez.
Venerdì scorso il Supremo Tribunale Elettorale ha decretato la vittoria di Evo, scatenando la rabbia di Mesa che ha denunciato frodi a suo dire perpetrate nei seggi, sostenendo che oltre 100mila voti fossero stati contraffatti. Da notare che martedì, dopo le votazioni, il ministro degli Esteri aveva avanzato richiesta ai vertici Oas di Washington (Organizzazione degli Stati americani) di verificare sul posto se ci fossero state violazioni da parte degli scrutinatori. Manuel González, capo della delegazione Oas di controllo, accettò l’invito, lamentando in seguito mancanza di chiarezza “difficile da spiegare” senza però fornire alcuna prova concreta se ci fossero state o meno violazioni palesi.
13 anni di socialismo indigeno
“Dopo 13 anni, i boliviani sono più sani, hanno più soldi, vivono più a lungo e sono meglio istruiti, oltre ad avere più diritti civili e meno dislivelli sociali di qualsiasi periodo precedente nella storia del Paese”. Lo riconosce il Washington Post, uno dei quotidiani di punta statunitensi.
D’altra parte, i risultati ottenuti dal Movimento per il Socialismo (Mas) di Morales e del suo vicepresidente Álvaro García Linera, soprattutto con la diminuzione della povertà in Bolivia, sono sotto gli occhi di chi vuol vedere. Così come il tasso di crescita economica, attestato da un Pil in aumento del 4,5% dal 2018, contro un’inflazione ferma al 1,5%.
Ciò non toglie che il suo leader abbia ignorato un referendum popolare che si era pronunciato contro il suo quarto mandato, appellandosi alla Corte costituzionale per l’annullamento di tale restrizione, con la motivazione di voler tutelare i suoi diritti.
Un altro fattore che ha contribuito a intaccare la popolarità di Morales sono gli incendi che hanno distrutto 4 milioni di ettari nel Sud-est della Bolivia causati, secondo le accuse, dal decreto governativo che ha quadruplicato i permessi rilasciati alle aziende agricole per deforestare ai fini delle coltivazioni. Non è un caso che a Santa Cruz, la città principale del Sud, l’opposizione abbia riscosso il successo maggiore. Ed è paradossale che per questa questione, l’ultimo esponente del socialismo andino sia accomunato proprio al suo nemico per antonomasia, il presidente Jair Bolsonaro, punto di riferimento dell’estrema destra in Brasile.
Indios, ago della bilancia
Bolivia ed Ecuador, a differenza degli altri stati latinoamericani dove la presenza indigena non è determinante per gli equilibri politici, hanno proprio negli indios l’ago della bilancia. In Bolivia sono metà della popolazione e in Ecuador, anche se gli indigeni puri incidono meno del 10% nella ripartizione demografica, sono assai agguerriti, come hanno dimostrato le rivolte contro i folli aumenti del carburante decisi da Lenin Moreno per compiacere il Fmi, ma ritirati dallo stesso dopo le pressioni dei dimostranti.
In Bolivia lo scontro non è solo tra capitale e socialismo, ma anche all’interno degli Aymara, l’etnia di Morales, che cominciano a stancarsi del proprio leader. Se Evo perde l’appoggio della sua gente è finito per davvero. Il Movimento Indigenista è spietato, anche nei confronti dei suoi rappresentanti: durante lo sciopero delle miniere, i minatori linciarono il ministro dell’Interno inviato da Morales perché non aveva saputo mediare tra le parti in conflitto.
Tuttavia, lo sfruttamento dei minatori parte proprio dalle cooperative che dovrebbero tutelarli, oltre che dai cinesi che controllano le saline di Uyuni dalle quali si estrae il litio. Comunque sia, se Morales e Linera cadessero, dopo il ritiro di Rafael Correa che ha lasciato incautamente spazio a uno come Moreno, il socialismo andino finirebbe, lasciando via libera al neoliberismo che sta di nuovo affliggendo l’America Latina, ricattata dai piani di austerity del Fmi. Per cui dopo di loro, il diluvio.
Ps. Alberto Fernández, peronista appoggiato dall’ex presidente Cristina Kirchner, vince le elezioni in Argentina, 48% contro il 40,5% di Mauricio Macrì. Il presidente uscente paga lo scotto di un percorso economico fallimentare, ereditato dalla stessa Kirchner, a cui non ha saputo porre rimedio pur ricorrendo a una privatizzazione estrema, contraendo anzi nuovi debiti con Fmi verso la fine del suo mandato. C’è da dire che nel 2016, a fronte della causa intentata da due hedge funds statunitensi per il pagamento della porzione a loro spettante del debito argentino da loro acquistato, Macrì è stato costretto alla restituzione del 75% della somma (4,65 miliardi di dollari) per chiudere la questione.
La Kirchner si era rifiutata di farlo ma i “fondi avvoltoio”, che costituivano il 7% del corpo creditori, avevano intanto accumulato dal 2001 un credito di 7 miliardi di dollari da riscuotere su un mostruoso debito sovrano di quasi 100 miliardi. L’isolamento finanziario conseguente a tale rifiuto costò all’Argentina, secondo Macrì, la perdita di due milioni di posti di lavoro, oltre a cento miliardi di Pil mentre l’importo del prestito concesso dal Fondo Monetario superava i 50 miliardi. Macrì era finito così negli artigli del Fmi, il condor che sovrasta il Sudamerica.
Aggiornato da redazione web il 29 ottobre alle ore 13