La proposta di un disegno di legge per obbligare i social network a identificare i loro utenti online con tanto di carta di identità o passaporto come rimedio agli episodi di hate speech denunciati, da ultimo, dalla senatrice Liliana Segre sta facendo, giustamente, discutere.
Il punto di partenza della riflessione è che non esistono, probabilmente, panacee o soluzioni salvifiche per la soluzione del problema che è uno dei tanti problemi epocali del web come le fake news, le violazioni del diritto d’autore, il diritto all’oblio. Guai, quindi, a pensare di promuovere o bocciare questa o quella soluzione pensando di avere in tasca quella giusta. Val la pena, tuttavia, di provare a fare la diagnosi del male che si vuole curare.
La malattia in questione potrebbe essere diagnosticata come un abuso di libertà, in particolare della libertà di parola e, quindi, della più preziosa delle libertà in ogni democrazia, online come offline. Ogni libertà finisce dove inizia quella altrui. E chi urla, offende, denigra, se la prende con qualcuno solo per la sua cultura, la sua religione, il colore della sua pelle ovviamente non esercita la libertà di parola ma ne abusa travolgendo con le sue parole gli altrui diritti e libertà a cominciare da quelli all’identità personale, al rispetto della propria dignità di persone, alla libertà di culto e di opinione anche politica.
È una malattia difficile da curare perché è sempre difficile tracciare una linea di confine nella tra l’uso e l’abuso di un diritto o di una libertà. È un confine labile, mobile, relativo ma che pure esiste e trasforma la pietra angolare della democrazia – la libertà di parola – in una pietra sulla democrazia come il travalicamento e la macellazione delle altrui libertà.
Ma chi abusa della libertà di parola sul web, il più delle volte – anche se non sempre – non lo fa incappucciato ma mettendoci la faccia perché ritiene, nella propria sub cultura, che offendere e denigrare qualcuno sia un titolo di merito, un modo per conquistarsi il plauso, quando non la leadership, della comunità di appartenenza. E, drammaticamente, spesso, ha ragione perché le offese raccolgono like, cuoricini, emoticon sorridenti e commenti di approvazione.
I “leoni della tastiera”, raccontano le cronache, normalmente hanno un profilo social con nome e cognome reali e tanto di foto.
E questa è la prima ragione per la quale non è certamente stabilendo per legge un obbligo di identificazione degli utenti a mezzo carta di identità che si risolverebbe il problema dell’odio online. A prescindere dal fatto che si tratterebbe di un obbligo difficile – se non impossibile – da implementare in una società globale.
Ma la ragione principale per la quale l’idea di identificare in maniera forte gli utenti dei social è, probabilmente, sbagliata è un’altra: non si può provare a curare l’abuso di una libertà – e, dunque, un episodio patologico e eccezionale – con una ricetta che minaccia di limitare l’uso ordinario, lecito e irrinunciabile di quella libertà.
Guai se per evitare che qualcuno abusi della libertà di parola, finissimo con il privare qualcun altro della possibilità di farne un uso corretto. E, purtroppo – perché è evidentemente il segno più tangibile di qualcosa che non funziona – nella società in cui viviamo ci sono contesti, più diffusi di quanto non si pensi, in cui per esser liberi di dire ciò che si vuole, occorre rendersi quanto più anonimi possibile.
Privare tutti del diritto all’anonimato – peraltro relativo perché nel mondo digitale quello assoluto normalmente non esiste – per impedire a qualcuno di abusare della libertà di parola non sembra, davvero, una buona idea. Educazione, cultura, dialogo, sanzioni riabilitative sono, forse, gli ingredienti da combinare alla ricerca di una soluzione che non bandirà il fenomeno dell’odio – razzista e non – dal web ma lo arginerà e lo confinerà, si spera, ai margini della società.