Slitta la requisitoria del processo d’appello davanti alla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta sulla strage di Capaci. I giudici hanno accolto la richiesta dei legali degli imputati del processo Capaci bis e della Procura generale, ha deciso di sentire i pentiti Pietro Riggio, Maurizio Avola, Raimondo Di Natale. E poi anche Marcello D’Agata. Verrà chiamata a deporre anche la genetista Nicoletta Resta. Per i giudici gli esami testimoniali sono necessari per il completamento dell’istruttoria. Riggio e Avola saranno sentiti il 19 novembre, mentre D’Agata, Di Raimondo e la genetista il 29 novembre. Le difese di alcuni imputati avevano chiesto di sentire il pentito Pietro Riggio, protagonista di recenti rivelazioni sulla fase esecutiva dell’attentato costato la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie e agli agenti della scorta, e il collaboratore di giustizia catanese Maurizio Avola. Il sostituto procuratore generale Lia Sava non si era opposto alle richieste purché si sentissero ano anche i pentiti Marcello d’Agata e Raimondo Di Natale.
Gli imputati del processo cosiddetto Capaci bis sono i boss Salvo Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro, Lorenzo Tinnirello e Vittorio Tutino. I primi quattro, in primo grado vennero condannati all’ergastolo mentre Tutino venne assolto per non aver commesso il fatto. Per la Corte d’Assise nissena il boss palermitano di Cosa nostra Salvo Madonia sarebbe stato uno dei mandanti della strage, mentre gli altri sarebbero stati coinvolti nella fase esecutiva dell’attentato. La nuova inchiesta sull’eccidio del 23 maggio ’92 venne aperta dopo il pentimento dell’ex killer della cosca mafiosa di Brancaccio Gaspare Spatuzza, che rivelò nuovi dettagli ai pm di Caltanissetta, in particolare facendo emergere il ruolo della stessa cosca di Brancaccio nella preparazione della strage.
Riggio, ex agente carcerario vicino ai clan nisseni, che ha deciso di raccontare ai pm di Caltanissetta della presenza di un misterioso poliziotto, soprannominato ‘il turco, nella strage di Capaci. I verbali con le sue dichiarazioni sono agli atti del processo da quasi un anno e le rivelazioni sono arrivate a distanza di dieci anni dall’inizio della sua collaborazione con la giustizia. Le dichiarazioni, che lasciano perplessi i magistrati, sono state acquisite. Riggio, 54 anni, sostiene che un ex poliziotto avrebbe messo l’esplosivo sotto l’autostrada fatta saltare in aria a Capaci il 23 maggio del 1992. A informarlo della vicenda sarebbe stato lo stesso agente che gli avrebbe confidato “di aver partecipato alla fase esecutiva delle strage Falcone“. Si sarebbe occupato del riempimento del canale di scolo dell’autostrada con l’esplosivo, operazione eseguita tramite l’utilizzo di skate-bord”. Il pentito ha detto di non aver parlato prima perché aveva paura “di mettere a verbale certi argomenti”, temendo ritorsioni per sé e la sua famiglia. Il suo nome compare in inchieste sulla mafia delle estorsioni nissena dalla fine degli anni Novanta. Nel processo d’appello sulla strage nei mesi scorsi finirono anche le rivelazioni di un altro pentito, il catanese Maurizio Avola, sicario di Cosa nostra che si autoaccusò di aver avuto un ruolo nella fase preparatoria dell’attentato. Insieme al boss Marcello D’Agata, avrebbe trasportato detonatori e tritolo a Termini Imerese, mettendoli a disposizione di Cosa nostra di Palermo.
Aggiornamento: il sig. Marcello D’Agata non ha mai intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia, pertanto, allo stato non sussistono elementi perché possa essere definito pentito. La redazione dal fattoquotidiano.it ha modificato l’articolo il 5 novembre 2019 alle ore 17.
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
Spett.le “Il Fatto Quotidiano” sede legale Via di Sant’Erasmo, 2 00184 — Roma (RM)
Egr.gi Direttore Sig. Peter Gomez e Vice-direttore sig. Simone Ceriotti, scrivo in merito all’articolo pubblicato sul quotidiano on line “Il Fatto Quotidiano” il giorno 29 ottobre 2019 dal titolo “Strage di Capaci, in appello corte cita quattro pentiti e una genetista. Slitta la requisitoria”, a firma di un non identificato autore. Nel menzionato articolo viene data un’indicazione scorretta circa il mio assistito Marcello D’Agata. Quest’ultimo, infatti, viene definito pentito ed accostato a nomi di altri personaggi, costoro si, reali collaboratori di giustizia. Ebbene, questa mia missiva ha quale unico scopo quello di chiarire che il sig. Marcello D’Agata non ha mai aderito ad un programma di protezione previsto per i collaboratori di giustizia, né mai ha intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia. La posizione del sig. Marcello D’Agata è ben conosciuta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Caltanissetta così come anche dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catania. Lo stesso ha sempre dichiarato di non essere in grado di poter aggiungere nulla a quanto chiarito dalle sentenze e detto dai collaboranti. Forse chi non è avvezzo all’utilizzo del linguaggio tecnico giuridico può cadere nell’errore di utilizzare con troppa facilità determinate definizioni. Ma, nella criminalità organizzata, definire “pentito” chi un “pentito” non lo è, non è una leggerezza scusabile. Questo significa mettere a repentaglio seriamente la vita non solo del soggetto in questione, ma anche dei familiari che incolpevolmente si trovano coinvolti in un destino non scelto. Tale precisazione non vuole in nessun modo svilire la pregevolissima scelta operata da uomini e donne che scientemente hanno deciso di aderire ad un determinato progetto di vita, nella piena tutela della propria incolumità personale, fornita da un programma specifico messo a disposizione dallo Stato. Il sig. Marcello D’Agata ha sicuramente cambiato vita, abbracciando a pieno la proposta rieducativa avanzata dall’Istituto Penitenziario presso cui è detenuto, ma proprio perché, ad oggi, non è un collaboratore di giustizia, non è in un programma di protezione, così come non lo sono i suoi familiari. Né tanto meno ha accesso ad alcun beneficio premiale previsto dall’ordinamento penitenziario. Ha certamente compreso la gravità del suo operato e ripudia a viva forza il proprio passato, ma non può essere definito “pentito”. Utilizzare dei termini impropri in alcuni contesti sociali può corrispondere ad una sentenza di morte, in cui spesso il condannato è proprio un innocente.