di Irene Sgambaro
Siamo abituati a immagini, che ci vengono proiettate dalla società, sulla maternità legate a sensazioni positive. La maternità come gioia, felicità. Certo, anche la fatica e la responsabilità sono due elementi spesso portati all’attenzione del pubblico. Ma il buio che a volte può intervenire nell’esperienza della maternità viene spesso lasciato, per l’appunto, nell’oscurità. Emerge ogni tanto, quando compare un articolo sulla depressione post-partum, argomento di cui in effetti non è più raro sentir parlare. Tema tuttavia ancora isolato è quello dei momenti oscuri al di fuori di una situazione clinica di depressione o “estrema”. Gli aspetti bui quotidiani dell’essere madre.
Prima di avere un figlio nessuno mi aveva parlato (famigliari, ostetrica, medico di base, ginecologo) del fatto che la montata lattea possa essere dolorosa; del fatto che le prime notti in ospedale il bambino si vorrà attaccare al seno ogni 15 minuti perché sente che il latte sta per arrivare e istintivamente sa che attaccandosi arriverà più in fretta. Nessuno mi aveva preparato ad alcune giornate di solitudine totale tra mamma e bambino, né a cosa succede una volta che si smette di allattare.
Sono partita per tre notti per fare – come diciamo noi antropologi – ricerca sul campo, in un monastero ortodosso. Mi sono ritrovata in una cella piccola, adiacente a quelle delle monache, circondata da suore, con le tette che scoppiavano e facevano male, la sensazione di avere la febbre e le emozioni a fior di pelle. Era il primo distacco da mio figlio, allora di quasi un anno, e tutto lo sbalzo ormonale dovuto al fatto di non allattare rendeva tale distacco e il contesto, poco idoneo al momento che stavo passando, penosissimo.
Mi sono trovata a piangere da sola con una disperazione che aveva senso solo in quel contesto e in quel momento e che, passati quei giorni, non potrà più essere capita allo stesso modo, neanche da me stessa. Il distacco da mio figlio era una montagna, uno strappo, una violenza che mi ero auto-inflitta. L’unica cosa a cui pareva puntasse il mio corpo era a riprendere il treno, direzione: casa.
Ho chiamato mamma e marito (sussurrando per non disturbare le religiose), ma ciò che ha cominciato a calmarmi è stato contattare l’unica amica che all’epoca avesse già avuto un figlio; mi ha spiegato dei cambiamenti ormonali e mi ha detto che ero una “eroina” ad andare a fare interviste per il dottorato con le tette piene di latte e questo, in quel momento, mi ha fatto sentire meglio.
Mi ha dato una materia scientifica sulla base della quale razionalizzare la situazione e mi ha fatto sentire non debole perché piangevo ma, al contrario, un’eroina. Ha capito la monumentalità che per me rappresentava psicologicamente, in quel momento, il viaggio che avevo compiuto dal nord al sud della Francia.
Attrezzata solo di un tiralatte, ho scoperto presto la sua inutilità, dato che le tette erano talmente piene di latte e dure che il tiralatte era inutilizzabile. Sempre la stessa amica mi ha dato la soluzione: “spremitura manuale”. Mi sono ritrovata a spremermi le tette, in un lavandino minuscolo di una cella di un monastero, nel mezzo della notte e, ogni tanto, nel mezzo della giornata. Nella mezzora – minimo – passata ogni volta su quel lavandino (perché sì, la spremitura manuale ha dei tempi abbondanti) mi trovavo a chiedermi perché fossi in quel monastero a fare delle interviste e non a casa col bambino.
Durante gli offici in chiesa, riuscivo solo a concentrarmi sulle mie tette doloranti e, alternando momenti in cui cercavo di trattenere le lacrime e altri in cui cercavo di trattenere i sorrisi (il contrasto tra la mia condizione di neo-mamma alle prese con il proprio latte e la vita da monache aveva comunque un che di comico), cercavo di accodare ai canti e alle preghiere che mi circondavano la mia: di sopravvivere a quei quattro lunghissimi giorni. Cosa che in quel momento sembrava tutt’altro che scontata.
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