Un documento dell'Imo, l'Organizzazione marittima internazionale, del 12 novembre 2018 "presentato dall'Italia" spiega che "l'Ue e l'Italia sostengono la creazione del centro di coordinamento per il salvataggio marittimo libico e l'addestramento specifico del personale della Guardia costiera libica"
Anche la Guardia Costiera libica ha un suo “codice di condotta” per i salvataggi in mare. Un documento reso pubblico dall’Arci i cui contenuti diventano ancora più rilevanti dal momento che, in caso di mancato intervento del governo, il prossimo 2 novembre sarà riconfermato automaticamente il Memorandum of Understanding tra l’Italia e il Governo di Tripoli. Un accordo che le ong e un pezzo di politica vorrebbe stracciare, ma sul quale invece il governo pare intenzionato ad andare avanti.
L’esistenza di questo codice pone due ordini di problemi. Il primo politico: “C’è una mano italiana dietro la costruzione del centro di coordinamento dei salvataggi libico (Lmrcc), si legge la volontà di costruire un sistema parallelo rispetto a quello italiano con cui fermare i migranti”, spiega Sara Prestianni dell’ufficio immigrazione di Arci, responsabile del progetto con cui l’associazione sta monitorando l’utilizzo dei soldi pubblici italiani ed europei destinati all'”esternalizzazione delle frontiere”, ossia l’appalto a Paesi di transito o provenienza dei migranti della gestione dei flussi migratori.
In particolare, per la costruzione del centro di coordinamento libico, passaggio fondamentale per gestire una regione di salvataggio, l’Italia ha sborsato a luglio 2017 e dicembre 2018, in due tranche, oltre 91 milioni di euro. L’investimento rientra in un piano più ampio che, tra soldi italiani ed europei, muove 388 milioni di euro. A che altro servissero quei soldi, al momento, non è dato saperlo: “La Libia non è nemmeno un porto sicuro, il Lmrcc libico è incapace di rispondere alle chiamate d’emergenza e, se lo fa, a volte usa la violenza, minacciando o sparando sulle ong”, aggiunge Prestianni. È poi documentata la collusione tra pezzi della Guardia Costiera libica responsabile del coordinamento e i trafficanti, come nel caso del gruppo criminale di Zawiya, città costiera famosa per essere un porto di partenza dei barconi.
Mentre la politica dibatteva sulla legittimità del memorandum con la Libia e del conseguente affidamento dei salvataggi, la creazione del Lmrcc libico e di una zona Sar (Search and Rescue) è andata avanti spedita, senza alcun tentennamento e con il plauso internazionale. Il ruolo dell’Italia come promotore della legittimazione dei guardacoste libici è indiscutibile. Una prova sta in un documento dell’Imo, l’Organizzazione marittima internazionale, organismo Onu di base a Londra, del 12 novembre 2018. Il testo, si legge, è stato “presentato dall’Italia”: “Questo documento fornisce informazioni sulla Conferenza mediterranea delle operazioni di ricerca e soccorso marittimo (Mediterranean maritime search and rescue conference), un evento internazionale organizzato all’interno del Progetto Lmrcc”, recita il sommario.
“L’Ue e l’Italia sostengono la creazione del centro di coordinamento per il salvataggio marittimo libico e l’addestramento specifico del personale della Guardia costiera libica al fine di consentire alla Libia di operare nella sua Search and Rescue Region secondo il diritto internazionale”, si legge nel documento. Il progetto Lrmcc è tra quelli finanziati con i 388 milioni di cui sopra. La conferenza, che si è tenuta a Roma l’11 ottobre 2018, ha visto la partecipazione di ufficiali da Albania, Croazia, Egitto, Francia, Gibilterra, Grecia, Libia, Malta, Monaco, Montenegro, Marocco, Slovenia, Spagna, Tunisia, Turchia e Portogallo, oltre che delegati delle agenzie europee che si occupano di frontiere e di mare. Frontex, per dirne una.
Tra i temi del dibattito la definizione di “porto sicuro” e il fatto che nessuna delle convenzioni internazionali sul salvataggio in mare (Unclos, Solas e convenzione Sar) “è stata avviata o redatta per far fronte alle situazioni attualmente in atto nel Mediterraneo centrale”. Non è un caso che ad oggi la Libia non abbia ancora né un “porto sicuro”, né sia chiaro se abbia mai sottoscritto le convenzioni internazionali obbligatorie per poter gestire un centro di coordinamenti dei salvataggi in mare.
Il secondo problema è invece di ordine giuridico. Ci sono infatti “frizioni con il diritto internazionale”, afferma Lucia Gennari, avvocato socio di Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione). Primo fra tutti, i confini entro cui questo codice è applicato: “Si parla solo di applicazione in zona Sar, che sono acque internazionali”. In altre parole, è come se l’autorità libica si applicasse anche al di fuori dei confini nazionali. Nel codice si legge che “il Dispositivo (ossia la Guardia costiera libica, ndr) è autorizzato a salire a bordo delle unità marittime a ogni richiesta e per tutto il tempo valutato necessario”. In realtà, “in quello che si chiama nel diritto della navigazione ‘diritto di visita’ sono individuati dei limiti precisi, che variano di caso in caso”, commenta Gennari.
Ancora, il fatto che dal momento in cui il Lmrcc comunica con una nave il capitano venga esautorato e costretto a seguire solo ed esclusivamente le direttive del centro di coordinamento, anche se in violazione di altre leggi, pone un ulteriore problema. “Interventi così sono previsti solo in determinate circostanze, come atti di pirateria”, chiosa Gennari. “Ci sono possibili conseguenze di ordine pratico – aggiunge – perché questa legittimazione a salire a bordo crea ulteriori tensioni nella zona Sar libica, non solo per le navi delle ong ma per chiunque passi di lì”.
Punto invece più difficile da tradurre è l’articolo 12 secondo cui “i naufraghi salvati nell’area da parte delle organizzazioni non vengono rimandati allo Stato libico tranne nei rari casi eccezionali e di emergenza”. L’articolo non conta le imbarcazioni intercettate “in autonomia” dalla Guardia costiera libica, che probabilmente prevederanno ancora una volta la riconsegna dei migranti ai centri di detenzione libici. Quello che potrebbe accadere è che alle navi non libiche non sarà indicato Tripoli come porto di sbarco, ma è solo un’ipotesi da verificare alla prova dei fatti.
Il documento libico è un decreto del governo di accordo nazionale. Non, come quello italiano dell’agosto 2017, un codice di comportamento a cui delle imbarcazioni specifiche – ossia quelle delle Ong – si dovevano adeguare. Eppure le somiglianze sono evidenti. All’articolo 14, il codice libico impone di evitare “segnali di luce”, mentre quello italiano dice di evitare di “inviare segnalazioni luminose”. Entrambi ribadiscono obblighi già previsti dalle normative internazionali, come non spegnere i trasponder di bordo e collaborare con i centri di coordinamento di salvataggio e prevedono il recupero dei motori delle imbarcazioni dei migranti, solo che il codice libico aggiunge che “saranno consegnati allo Stato libico e saranno sottoposti all’applicazione della legislazione in vigore”.
Anche la più recente Dichiarazione di Malta del 23 settembre, momento che doveva dare avvio alla costruzione di un meccanismo condiviso per la gestione degli sbarchi e che invece è ancora fermo al palo, conferma nei contenuti quanto espresso dal codice libico, scritto giusto cinque giorni prima. Al punto 9, infatti, i Paesi europei riuniti a Malta chiedevano di “non ostacolare le operazioni di Search and Rescue delle Guardie costiere ufficiali, inclusa la Guardia costiera libica”. L’ennesimo segnale che la collaborazione con la Guardia costiera libica non è messa in discussione da nessuno in Europa.