Una botta. Attesa, ma pur sempre una botta. Che arriva nel momento peggiore per la leadership di Luigi Di Maio e aumenta ancora di più il caos nel Movimento. La sconfitta in Umbria, qualunque cosa dica Giuseppe Conte per ridimensionarla, ha dato l’ennesima scossa agli equilibri interni del M5s. Lo sapevano tutti, dicono oggi, che sarebbe andata così male: lo sapevano gli attivisti e i parlamentari, lo sapeva (lo assicura) il capo politico. Fin qui tutti d’accordo. Ma come ci si risolleva dalla caduta nel burrone sotto il 10 per cento? Non lo sanno. Perché se la “testa”, ovvero Di Maio, va da una parte, la novità è che sotto il “corpo” non lo segue più. O almeno fa molta fatica a farlo. Nei corridoi la chiamano “la maggioranza silenziosa”: il leader non tiene il gruppo che, se dovesse schierarsi oggi per un capo diverso, lo farebbe. Ancora una volta però, attenzione perché non vuol dire niente: un altro leader non c’è e nessuno è pronto a bruciarsi come una delle tante promesse mancate.

La novità è che neppure la guida di Conte basta più: il presidente del Consiglio continua a essere molto amato nei gruppi parlamentari (sulla lotta all’evasione ha conquistato tutti), ma non può e non vuole essere lui quello che salverà i destini del Movimento. “Il problema è riuscire a dare una forma al malcontento“, spiegano fonti interne a ilfattoquotidiano.it. “Siamo tanti, ma sparpagliati e senza strategia. Però i contatti tra chi vuole vedere la primavera dei 5 stelle aumentano. Non staremo a guardare mentre si sfascia tutto”. Poi c’è chi va oltre: “E’ come se avessimo esaurito la nostra spinta. Di cosa parliamo? I tagli ai costi della politica? Fatti. L’anticorruzione? Fatta. Il reddito di cittadinanza, pure. Gli elettori ci chiedono perché dovrebbero votare per noi e non sappiamo cosa dire. Il rischio è che ci riduciamo a pensare solo all’autoconservazione”. Eppure una strada per uscire ce l’hanno in testa ed è quella che ha indicato Beppe Grillo a Napoli nell’ultima uscita pubblica: smetterla di “lamentarsi”, tornare sui territori e nelle piazze, e spingere innanzitutto sull’ambiente. Perché chi, se non i 5 stelle, ha il pedigree per diventare il nuovo partito dei Verdi italiano? E’ da lì che vorrebbero ricominciare a costruire e, come ha detto il garante, il Pd, almeno a livello nazionale, è l’alleato giusto per farlo. Ne sono convinti quasi tutti dentro il Movimento. E anche per questo hanno guardato con sospetto la fretta di Di Maio di archiviare “l’esperimento”. Per dirla con la voce della base (il copyright è di un ex consigliere emiliano, Matteo Olivieri), è come se avesse gridato: “Ho gettato una bombola a gas nel fuoco, ma l’esperimento è fallito. Quindi basta con gli esperimenti. Il cittadino normale potrebbe lasciarci le penne, uccidere qualcuno, finire in galera, finire sotto cura. C’è invece chi se la cava con tre righe”. Ovvero, Di Maio la fa troppo facile: qualcuno dovrà pagare e il rischio è che debba essere proprio lui.

La leadership che traballa e i legami con il Pd – Per capire il Movimento serve ragionare come il Movimento. Di Maio è il capo politico che li ha portati al governo: benedetto (almeno in passato) da Beppe Grillo, è quello che è riuscito nell’impresa impossibile. Quindi, non esiste che da un giorno all’altro venga sfiduciato. Almeno non così facilmente e non se vuol dire ammazzare il M5s. Il problema è che negli ultimi mesi non solo non ha fatto che accumulare insuccessi, ma sta anche tirando sempre più la corda. Prima ci sono state le resistenze a mollare la Lega e andare col Pd dopo il tradimento di Salvini, poi ha deciso di accelerare e di rompere un tabù dietro l’altro: l’apertura alle liste civiche e la corsa con i dem proprio in Umbria. Infine l’autoanalisi della sconfitta fatta su SkyTg24 in diretta dal suo ufficio e la fretta di mollare i democratici, facendo circolare tra i gruppi un “io ve l’avevo detto” che ha fatto indispettire una marea di gente. “Non abbiamo neppure fatto il comitato elettorale in Umbria”, è la risposta che hanno fatto arrivare al capo i parlamentari. “Per la campagna si saranno mossi al massimo sette di noi. E’ come se avesse giocato per perdere, cosa voleva dimostrare? Così è un massacro”. I big effettivamente si sono visti molto poco e nel giorno della fatidica “foto di Narni” con Zingaretti, Conte e Di Maio, di altri parlamentari si sono visti solo Laura Castelli e Giancarlo Cancelleri. Gli altri? Non pervenuti. Senza parlare della scelta: loro chiusi in un’auditorium, mentre Matteo Salvini scorrazzava nelle piazze a prendersi applausi e strette di mano. La contestazione sul punto è molto forte: perché se la sconfitta in Umbria riempie le pagine dei giornali per qualche giorno, quella in Emilia Romagna di gennaio prossimo rischia di essere una spallata al governo. “Non è prematuro non provarci nemmeno nelle altre Regioni? Di Maio lo sa quello che sta facendo?”. E’ questa la contestazione che gli fanno dall’interno. E non solo off the records. In attesa della sempre più urgente riorganizzazione, per la quale la macchina è partita anche se molto lentamente, tutto rimane molto fluido. Dove però essere fluidi significa che decide sempre e solo Di Maio: da mesi gli contestano la poca collegialità e lui, di fatto, non ha fatto nulla per accontentare i detrattori. A traballare è proprio anche l’immagine del leader e alcune mosse per la base sono risultate davvero incomprensibili: dalla scelta di mollare il ministero del Lavoro per avere tutti i costi un posto alla Farnesina, alla decisione di salire sul palco del Maurizio Costanzo Show a due giorni dalla sconfitta in Umbria.

La maggioranza silenziosa e lo strappo sull’evasione – E’ così che si vede emergere quella che già all’interno chiamano una maggioranza silenziosa. Sui giornali ci sono alcune voci critiche che si fanno sentire sempre di più: l’eurodeputato Ignazio Corrao e l’ex ministra Barbara Lezzi, ad esempio. C’è poi chi chiede di aprire almeno una discussione interna: il senatore Primo Di Nicola e pure il sottosegretario Stefano Buffagni. Ma anche i deputati Luigi Gallo e Carla Ruocco, e il senatore Gianluigi Paragone. Senza dimenticare gli attacchi ormai senza freni del senatore Mario Giarrusso. La particolarità questa volta è che i parlamentari non possono essere identificati in un’unica “corrente”. Ognuno rappresenta un mondo a parte e parla, per il momento, per sé. Uno che potrebbe metterli d’accordo è Alessandro Di Battista: l’ex deputato è fuori dalla scena per motivi familiari, ma tutti sanno quanto disapprovi la linea seguita da Di Maio. Tornerà da leader e prenderà il potere interno? Difficile dirlo. Resta il fatto che, se un tempo il M5s era abituato ad avere poche voci dissidenti che facevano più rumore di quanto fossero effettivamente rappresentative, ora è il contrario. Sono pochi che si fanno sentire, ma dietro le teste sono tante: ora non hanno il coraggio di esporsi o, ancora meglio, non ne hanno convenienza perché prima di tutto hanno la preoccupazione di salvarsi il posto, ma fino a quando sarà così? I segnali della loro presenza sono sempre di più. Un momento cruciale è stato durante la discussione della bozza della legge di bilancio: Di Maio ha chiesto di rinviare alcune misure contro l’evasione per tutelare “i professionisti e i commercianti”. “Ha scatenato una protesta interna senza precedenti”, raccontano ancora. “I parlamentari hanno avuto paura di passare per i ‘salva evasori‘. E lì si è visto quanto poco appoggio ha in Parlamento”. Per avere una prova concreta basta guardare poi all’elezione del capogruppo alla Camera: sono ormai più di due settimane che i deputati non riescono a trovare un accordo e la candidata “apparecchiata” da Di Maio, Anna Macina, si è ritirata dopo aver preso meno del 20 per cento dei consensi. I campanelli d’allarme cominciano ad essere ben più di uno.

La ricerca di un programma (e di una visione) e la linea di Grillo per spingere sull’ambiente (finora ignorata) – Di fronte allo strapotere del centrodestra nel Paese, il motivo di più grande disorientamento per i 5 stelle è quello di riuscire a parlare ancora agli elettori. E per gente nata e cresciuta nelle piazze, ai banchetti agli angoli delle strade, è un problema esistenziale. Ora che sono dentro i palazzi e ora che hanno fatto un nuovo patto per restare al governo è sempre più difficile presentarsi come gli antisistema. “Serviamo ancora?”, è il ragionamento che arrivano a fare. La più grande paura è quella di non avere una “visione”. Se ne lamentavano i primi storici espulsi dal Movimento e per molti è ancora così: “Chi ce l’ha, se oscura Di Maio, viene fatto fuori”, confessano alcuni. In realtà la strada per uscire dal tunnel non va neppure inventata: c’è e l’ha indicata Beppe Grillo dal palco di Napoli. Perché se tutti i giornali si sono concentrati sul “vaffanculo” rivolto ai suoi stessi elettori troppo impegnati “a lagnarsi dell’alleanza con il Pd”, il garante del Movimento ha detto molto altro.

Ad esempio che la soluzione ora è quella di lavorare con i democratici, perché il M5s sta dettando l’agenda. Ed è il momento, questo e non un altro, di puntare tutto su ambiente e diritti sociali e civili: un’agenda che è stata del Movimento e su cui possono lavorare ancora. Per farlo, è la riflessione, serve anche evitare di aprire lo scontro continuamente con gli alleati perché la litigiosità finora li ha portati “a precipitare nei consensi”. Senza dimenticare che, se hanno un’agenda chiara in mano, diventa più facile tornare a farsi vedere nelle piazze per parlare di risultati e obiettivi. Come facevano quando sono nati. “Dobbiamo capire al più presto qual è la nostra identità o quale vogliamo che sia d’ora in poi”, dicono. Perché il nemico Salvini ha una rete di valori che cattura gli elettori, mentre i 5 stelle, sbandati da una sponda all’altra, hanno bisogno di ridefinirsi al più presto. O semplicemente tornare a essere quello che erano all’inizio: un gruppo di cittadini sui territori che sbandieravano parole come “bene comune”, “democrazia diretta” ed “ecologia”. E se prima, sull’onda dello tsunami e dell’assalto al palazzo, c’erano altre priorità da affrontare. Ora è diventata una questione di sopravvivenza.

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