È opinione diffusa che il “pubblico” sia sinonimo di inefficienza, di sperpero del denaro della collettività, mentre il “privato” sia l’opposto, il regno dell’efficienza: questo convincimento sostenuto da alcuni ha fatto breccia nell’opinione pubblica. La Rai non poteva non ricadere in questo luogo comune.
La Rai ha un’immagine contraddittoria, certificata anche da ricerche di mercato: i suoi programmi sono seguiti, come conferma il fatto che ha la supremazia sugli ascolti, mentre l’immagine dell’impresa-Rai è perlopiù negativa. Alla Rai vengono imputate le maggiori “nefandezze” (nonostante i bilanci siano quasi sempre in attivo): improduttività, eccesso del personale, sudditanza alla politica, accuse che portano molti a ritenere più utile privatizzare la Rai e annullare il canone, la tassa forse più osteggiata.
La privatizzazione della Rai sarebbe una sciagura! Vorrebbe dire che la Rai e di riflesso l’intero sistema della comunicazione perderebbero 1.758 milioni di proventi del canone di abbonamento. Canone che, è bene ricordare, è il più basso in Europa, 90 euro, mentre in Germania è pari a 210, 166 nel Regno Unito e 138 in Francia.
La Rai-privatizzata e del tutto commerciale cercherebbe di compensare la perdita del canone puntando ad attingere più pubblicità (ora contingentata da affollamenti pubblicitari più ristretti). I ricavi pubblicitari, che ammontano a 550 milioni, potrebbero più che raddoppiare. L’aumento non compenserebbe la perdita del canone per cui la Rai si troverebbe in una situazione fallimentare (lo stesso vale per gli altri network privati, che si troverebbero ad acquisire meno pubblicità).
Il canone pesa sull’intero sistema televisivo per il 21%, quasi un quarto del totale delle risorse (41% è la pubblicità, il 38% gli abbonamenti pay). Senza di esso la Rai sparirebbe ma lo stesso sistema si disintegrerebbe: saremmo ancor più preda delle grandi major e la Tv sarebbe di fatto tutta a pagamento.
Il 52% dei costi di gestione della Rai afferiscono alle spese per acquisti e servizi. In questa voce rientrano, per esempio, le spese per la cancelleria, ma rientrano soprattutto gli acquisti per gli apparati tecnici e quelli legati ai programmi. Non ci fosse il canone, l’industria dello spettacolo morirebbe, dall’audiovisivo (cinema, fiction, documentari) alla musica ed allo sport. Un’infinità di professioni, nelle quali primeggiamo anche a livello internazionale (come i tecnici del suono e delle luci, i costumisti), sparirebbe.
La società Rai ha circa 13mila dipendenti: il confronto, del tutto indicativo in quanto società troppo diverse, con Mediaset (circa 4,8mila come gruppo) è negativo per Rai, anche se va aggiunto che l’azienda pubblica autoproduce in misura più consistente; se invece il confronto, più corretto, avviene con gli altri servizi pubblici europei, la Rai ne esce assolutamente vincente (Ard e Bbc hanno un personale ben superiore, circa 20mila, mentre la Tv pubblica francese ha un dato simile).
Questi pochi elementi confermano che la Rai non sia il regno dell’inefficienza, ma nemmeno della produttività! Il problema è che la Rai svolge troppe attività, spesso in contraddizione con il suo mandato, attività che distolgono inutili risorse: le è necessaria una vera ristrutturazione dei costi, risolvendo innanzitutto il dilemma se autoprodurre o comprare i programmi, perché le due opzioni impongono scelte opposte sull’utilizzo delle risorse interne.
La Rai ha perso lo smalto creativo di un tempo, è sempre più condizionata dal potere politico e l’informazione ne risente. Questi limiti giustificherebbero l’idea della privatizzazione, ma sarebbe una soluzione, come detto, errata, sarebbe opportuno invece apportare delle correzioni (a iniziare dalla governance). Se il cambiamento tardasse ad arrivare, i fautori della privatizzazione della Rai di sicuro aumenterebbero.