E alla fine Fca (famiglia Agnelli) trovò un partito disposto a sposarla. Fu il mercato a volerlo? Oppure avvenne che i discendenti del Senatore (quello vero, quello che in camicia nera accoglieva il Duce), timorosi di restare come le zitelle di una volta, si dichiararono disposti a tutto pur di trovare un marito alla loro creatura? O c’è qualcos’altro che a noi sfugge e che rese possibile ciò che sembrava tanto inevitabile quanto insensato per il futuro industriale dell’Italia? Parliamo al passato, remoto certo, perché la fusione con Psa che va in scena in questi giorni – almeno per noi italiani – è roba vecchia, acqua passata. Già troppo inchiostro è stato sprecato su questo tema, sugli interessi personali della famiglia Agnelli, sulle prospettive industriali dell’auto in Italia, sull’andazzo generale dell’industria automobilistica globalizzata, oggi come non mai obbligata a rinnovarsi e a investire.
Qualsiasi cosa si dica e si scriva, rischia di essere una banalità, un disco rotto e ripetuto, che sarebbe meglio mettere a tacere. Fca è andata dove voleva, al di là di ogni razionalità collettiva, al di là di ogni logica industriale nazionale. Le caratteristiche dell’operazione, i dettagli della fusione non ci interessano né ci riguardano. Se la fusione sarà paritaria; quanti miliardi (5,5?) liquidi, e presumibilmente fuori dal raggio d’azione del fisco italiano, incasseranno i maggiori azionisti di Fca; a quale posto della classifica mondiale dei produttori si piazzerà il nuovo soggetto frutto della fusione; quale sarà la sede e le caratteristiche della governance e perfino quali marchi e quali stabilimenti continueranno ad essere produttivi in Italia: sono tutte questioni che cascano come un sasso sulla testa dell’Italia – dove la Fiat molto ha dato e moltissimo ha ricevuto – né più né meno come si trattasse delle vicende di qualsiasi altra azienda multinazionale, che considera il nostro paese solo un mercato (molto piccolo) e nulla più, in cui le decisioni che contano non ci riguardano, anche se ci toccano. E tra l’altro le vicende di Toyota o Volkswagen sono molto più interessanti.
La fusione Fca-Psa è un tema che interessa solo agli storici dell’economia, poco agli economisti, pochissimo ai politici, quasi nulla agli automobilisti italiani. La storia dell’industria automobilistica in Italia – per il momento – è finita. Fiat dopo aver inglobato, con il consenso di una classe politica non disinteressata, l’intera, e una volta variopinta, industria automobilistica italiana ci ha salutato, “perché il mercato è diventato globale ed è impossibile competere restando italiani”, così dicono color che sanno. Resterà ancora per alcuni anni Ferrari (fino a quando un compratore molto più grosso non tirerà fuori una bella valanga di denaro). Addio Lancia, splendida e ipertecnologica Lancia. Addio Alfa, gioiello glamour di sportività ed eleganza. Addio Maserati. Addio Autobianchi. L’industria automobilistica italiana dai concessionari si è trasferita nei musei. L’era dell’auto elettrica o a idrogeno non vedrà l’Italia protagonista.
Anche prendersela con i governi e la politica sarebbe tropo facile. Certo – sia chiaro – in Germania e nemmeno in Francia tutto questo non sarebbe mai potuto accadere. È scontato dire che un governo che avesse avuto a cuore il futuro oltre che il presente dell’Italia avrebbe preteso che il capitale e il lavoro degli italiani continuasse a misurarsi con le nuove tecnologie, a battere la pista dello sviluppo e della ricerca industriali, perché questo è il dovere di un grande paese. Ma è inutile piangere sul latte versato, verosimilmente abbiamo avuto la classe dirigente che ci siamo meritati, egoista e di cortissime vedute.
Ora per dirla con il grande Bob, It’s all over now, baby Blue, take what you need, you think will last. But whatever you wish to keep, you better grab it fast… È la fine di un amore, non solo la morte di un’azienda, ma provate a spiegarlo alla famiglia Agnelli. L’Italia, velocemente, dovrà voltare pagina. Attenzione però: la perdita di un’azienda, la chiusura degli stabilimenti, la disoccupazione di migliaia di lavoratori non sono in fondo la iattura più grande, la disgrazia sulla quale piangere le lacrime più amare. Il danno maggiore è la perdita del patrimonio immateriale dell’industria automobilistica italiana, la cultura applicata all’impresa che ci ha consentito di produrre per un secolo veri e propri gioielli di design tecnologia e… profitti. Ma questa, ancora non è del tutto morta e, anche se sarà dura, nulla vieta che possa rinascere.