“Ogni volta che è in gioco il linguaggio, la situazione diviene politica per definizione, perché è il linguaggio che fa dell’uomo un essere politico”, scriveva Hannah Arendt, giornalista, storica e politologa di origini tedesche ma trapiantata negli Usa e naturalizzata americana.
Chiunque di noi condivida un qualsiasi contenuto sul web partecipa, in un modo o nell’altro, a un dibattito politico e si comporta da “essere politico”. È per questo che lasciano interdetti la decisione di Facebook di qualche settimana fa di sottrarre le inserzioni pubblicitarie politiche a ogni attività di fact checking e rimozione e quella annunciata ieri da Twitter di smettere di veicolare pubblicità politica.
Le parole, le opinioni, le immagini, i contenuti da chiunque postati online influenzano allo stesso modo – anche se naturalmente con intensità diversa – il dibattito politico, le consultazioni elettorali, le scelte e le decisioni sul governo della società. È poco utile, se non del tutto inutile, anacronistico e forse persino controproducente inventarsi una regola speciale – quale che ne sia il contenuto – per la pubblicità politica.
E anzi semmai il mutato contesto mediatico dovrebbe indurci a rivedere le regole per la pubblicità politica e elettorale, varate quando il web non esisteva e giornali, radio e televisione rappresentavano, più o meno, gli unici mezzi di orientamento di massa delle scelte politiche.
Perché mai in una pubblicità a pagamento online un politico dovrebbe aver licenza di mentire mentre in un post personale sui suoi canali social no? E cosa cambia davvero per la democrazia se Twitter impedisce a questo o quel partito politico di comprare una campagna di advertising elettorale ma permette – e guai se non lo facesse – a migliaia di suoi supporter di condividere centinaia di migliaia di contenuti di analogo tenore, anche laddove a monte, magari, vi sia comunque un input che arriva dalla segreteria di un partito?
È per questo che le due iniziative, benché di segno diverso, appaiono entrambe poco convincenti. La linea di confine dalla quale muovono è labile, poco significativa, irrilevante ai fini del problema che i due giganti dei social dichiarano di voler affrontare e risolvere con le loro iniziative: porre la società e la democrazia al riparo, quando più possibile, da ogni condizionamento digitale. Non è certo la pubblicità politica palese a falsare l’esito di un’elezione, a condizionare un risultato referendario, a segnare questa o quella scelta politica di un Paese o della comunità globale.
Sono, semmai, le dinamiche occulte di circolazione dei contenuti sul web a rappresentare un pericolo per la democrazia e tali dinamiche non sembrano destinate a essere in alcun modo lambite dalle decisioni annunciate dai due social.
Ammesso e non concesso che esistano soluzioni per un problema che sembra connaturato all’esistenza stessa del web, tali soluzioni andrebbero semmai ricercate nell’esasperazione della trasparenza delle origini di ogni contenuto pubblicato sul web e dei suoi eventuali obiettivi promozionali. È questo che, semmai, fa la differenza: porre ogni singolo utente del web nella condizione di sapere, in maniera evidente e in tempo reale, se chi gli racconta una storia o gli mostra un’immagine lo fa spontaneamente o in vista di un qualsiasi vantaggio, lo fa perché ci crede o perché è pagato per raccontare di crederci.
Non saranno né i divieti di “pubblicità politica” – qualunque cosa significhi l’espressione – in un ecosistema liquido, aperto, fluido come quello dei social a porre la società al riparo dal rischio di influenze e condizionamenti capaci di falsare le regole della democrazia, né le regole speciali e le licenze di mentire accordate ai politici che pagano.
Il problema è altrove e queste ricette hanno, per la verità, un po’ il profumo dell’ipocrisia istituzional-commerciale.