Non solo Libano, Iraq e Cile. A poco più di 200 chilometri dall’Italia, sull’altra sponda del Mediterraneo, non si fermano le proteste in Algeria. Anche questo venerdì, come ormai da nove mesi, migliaia di giovani, donne e uomini hanno sfilato pacificamente per le strade della capitale Algeri e di tante altre città del paese. Gli slogan non sono cambiati: esigono la cacciata definitiva di quel che resta del “regime”, la “fine del sistema”, ma soprattutto una reale transizione democratica.

“Sentiamo di esser stati dimenticati dalla comunità internazionale. Eppure siamo stati i primi a scendere in piazza. Siamo nel cuore del Mediterraneo, il futuro del nostro Paese può avere conseguenze dirette sull’Europa”, ricorda a Ilfattoquotidiano.it Said Salhi, militante della prima ora e vice presidente della Lega algerina per la difesa dei diritti umani (Laddh). E aggiunge: “Ho visto amici che sono stati sequestrati dalla polizia in piena manifestazione sotto i miei occhi e rinchiusi in carcere. Siamo determinati ad andare avanti, nonostante gli oppositori politici rischino ancora più di prima”.

Prima, e dal 1999, c’era l’ormai ex presidente Abdelaziz Bouteflika. Ma non sono bastate, il 2 aprile scorso, le sue storiche dimissioni ottenute grazie alla pressione popolare. Il governo di transizione del presidente ad interim, Abdelkader Bensalah, manovrato dietro le quinte dall’uomo forte del Paese, il militare Ahmed Gaid Salah, avrebbe dovuto condurre l’Algeria alle urne entro 90 giorni. Un limite imposto dalla costituzione del 1996, ignorata da quello stesso “sistema” contro cui la strada non ha più smesso di protestare. Così, una ristretta cerchia di personalità dell’ancien régime e generali dell’esercito ha in pugno, e non sembra voler lasciare, le redini del Paese più grande dell’Africa, primo partner commerciale del continente per l’Italia e secondo esportatore di gas dopo la Russia.

La strada contro i palazzi
Il ritornello si ripete da mesi: nei suoi discorsi trasmessi in diretta dai principali canali del Paese, il generale Gaid Salah chiede “le presidenziali il più rapidamente possibile”. Ma “elezione non è sempre sinonimo di democrazia”, sottolinea ancora Said Salhi. In un tête à tête sempre più rischioso, i manifestanti pretendono dall’esercito le garanzie necessarie per lo svolgimento di uno scrutinio libero. In primis: la liberazione dei circa duecento prigionieri d’opinione, accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. È il caso di Nour al-Houda Dahmani, studentessa universitaria di 22 anni, trattenuta dal 17 settembre nella prigione di El Harrash per aver brandito un cartellone contro l’issaba, la “banda dei potenti”, e la sua corruzione.

Come Nour, tante figure faro del movimento sono ormai dietro le sbarre. Molte in attesa del processo. La settimana scorsa, sei giovani sono stati condannati a due anni di reclusione per aver esposto una bandiera berbera, violando così, secondo una giustizia sempre più strumentalizzata, “l’integrità del territorio dello Stato”. “Il regime ricorre alla polizia politica per tentare di reprimere le manifestazioni. Per lo stesso motivo, i principali media del Paese sono censurati da mesi. Informarsi liberamente è impossibile“, spiega al fattoquotidiano.it Moussaab Hammoudi, ricercatore all’École des hautes études en sciences sociales (Ehess) di Parigi e specialista dell’autoritarismo in Algeria.

Nuove elezioni il 12 dicembre
In un clima di tensione crescente, il generale Ahmed Gaid Salah, in tenuta militare, ha fissato la data delle nuove elezioni direttamente dalla caserma. Una provocazione intollerabile per gli algerini, che hanno ricominciato a manifestare in massa, come non accadeva dalla caduta di Bouteflika. Il 12 dicembre, per la terza volta, il generale tenta di imporre elezioni dall’alto. È già accaduto il 18 aprile e, poi, lo scorso 4 luglio, quando il voto è stato annullato poche ore prima dell’apertura dei seggi e le candidature rigettate dal Consiglio costituzionale. Anche questa volta, i partiti di opposizione, compresi gli islamisti, hanno annunciato che non intendono prender parte al processo elettorale.

Per Hammoudi, “il rischio che le presidenziali del 12 dicembre si rivelino un nuovo fallimento è alto. Tra i candidati non esiste opposizione, è vietato perfino far campagna elettorale. A quel punto, se l’attuale governo appoggiato dall’esercito dovesse rimanere al potere senza scendere a compromessi, assisteremmo a un vero e proprio colpo di Stato“. Questo venerdì, ultimo giorno per la presentazione delle candidature, 22 uomini hanno comunque scritto il proprio nome sulla lista dei candidati. Tra loro anche due ex primi ministri sotto la presidenza Bouteflika, Ali Benflis e Abdelmadjid Tebboune.

“I due principali candidati fanno parte di quella stessa cerchia di potere. Chi voterà per loro?”, si domanda il militante Said Sahli, presente ogni venerdì in piazza. E aggiunge: “Chiunque pretenda di governare il Paese dopo queste elezioni non riuscirà a fermare le proteste”. Gli slogan dei manifestanti parlano chiaro: “Makach el vote wallah ma ndirou, Bedoui w Bensalah lazem ytirou“, ovvero “non ci saranno le elezioni, Bedoui (primo ministro) e Bensalah (attuale presidente ad interim) devono andarsene”. E poi: “Dégage Gaïd Salah, had el aâm makach el vote“, “vattene Gaid Salah, non ci sarà nessun voto quest’anno”.

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