Cinema

Doctor Sleep, c’era bisogno del sequel di Shining? Stanley Kubrick se la starà saporitamente ghignando

Doctor Sleep, il cosiddetto sequel di Shining, tratto dal romanzo omonimo di Stephen King del 2015, è un discreto thriller soprannaturale a cui è stata data la licenza di scorrazzare storicamente nell’immaginario di uno dei capolavori di Stanley Kubrick

di Davide Turrini

Ce n’era bisogno? No. Il film funziona? Abbastanza. E più che rivoltarsi nella tomba, Kubrick se la starà saporitamente ghignando. Perché Doctor Sleep, il cosiddetto sequel di Shining, tratto dal romanzo omonimo di Stephen King del 2015, è un discreto thriller soprannaturale a cui è stata data la licenza di scorrazzare storicamente nell’immaginario di uno dei capolavori di Stanley Kubrick. Per chi infatti fosse indeciso se schizzare di fanghiglia il film del 1980 con il silenzio assenso di un biglietto curioso facciamo presente che protagonista di Doctor Sleep è Danny/Doc, il fanciullo con poteri telecinetici, figlio sopravvissuto con madre del fu Jack Torrance diventato grandino. Ad interpretarlo in modalità catatonia Trainspotting c’è Ewan McGregor (scherziamo, ma il traballare è funzionale al personaggio), uscito da un lungo recupero fisico-mentale con gli alcolisti anonimi, ora inserviente in un hospice dove aiuta teneramente i pazienti a morire sereni (da qui il Doctor Sleep).

Prima di arrivare alle riunioni, alle pacche sulle spalle, alla costruzione di una solida amicizia con l’ex alcolista Billy, dobbiamo prò sorbirci quella che, a conti fatti conclusa la visione, è forse la più fastidiosa incursione nel film di Kubrick. Ovvero la flebile riproduzione del rapporto Wendy/Danny appena post Shining. Mamma e figlio rifugiatisi in Florida si atteggiano, si vestono, smorfieggiano, come nell’originale. Con l’unica differenza di un terrificante e loffio effetto Tale e Quale, da mondo povero dei sosia (quando apparirà anche il sosia di Nicholson alla fine si è comunque autorizzati a lanciare pomodori e insalata verso lo schermo). Esempio supremo: il piccolo Danny (sosia) con il sosia di Hallorann che dialogano su una panchina. Va bene, è scritto nel libro di King, e soprattutto il grande Stephen meditava da tempo vendetta nei confronti del saccheggiatore Stanley che non ha mai umanamente sopportato.

Libro e film collimano, quindi, in questo continuo flettersi nella storia originale che al cinema diventa, appunto, a generosi e ampi sprazzi una triste copia carbone. Digerito questo primo gradino di pallore creativo comunque necessario, ecco che Doctor sleep ingrana la seconda e prova a prendere una sua strada autonoma, o almeno non troppo dipendente dall’ingombrante passato. Vengono così introdotti gli altri due bordoni narrativi: quello cupo e violento del gruppo de “Il vero Nodo”, letteralmente una carovana un po’ gipsy composta da tizi che possiedono la “luccicanza” come Danny ma che si nutrono dell’energia/vapore soprattutto di fanciulli uccisi prolungando di centinaia di anni la loro vita verso l’immortalità; e quello molto più virtuoso di Abra (Kyliegh Curran), una ragazzina di dieci anni che dalla sua cameretta del New Hampshire riesce sia a percepire le nefandezze compiute dai farabutti del Vero Nodo in Ohio, soffrendo come pochi e mettendo in ansia i genitori, sia a mettersi in contatto telepatico comunicando il pericolo a centinaia di chilometri di distanza a Danny. L’uccisione dell’ennesimo ragazzino (truculenta assai nella sua rappresentazione) e del relativo succhiare del “vapore” vitale da parte del manipolo sadico di quasi immortali scatena definitivamente i grandi poteri di Abra che chiede così aiuto a Danny. L’uomo non potrà far altro, assieme ad Abra, che convogliare fisicamente il malvagio capo del Vero Nodo, Rose Cilindro, all’Overlook Hotel del Colorado dove tutto, a livello di demoni e poteri extrasensoriali, ha avuto inizio.

Ecco, sia chiaro, a circa mezz’ora, quaranta minuti dalla fine, quando il terzetto protagonista arriva all’Overlook per chiudere i conti ritorniamo magicamente, come nei primi minuti che vi abbiamo raccontato più sopra, dentro a Shining di Kubrick. Con qualche tappezzeria modificata di colore, ma sempre all’interno di una copia estremamente simile del set che fu. Non mancano gli oggetti di culto di Shining come l’ascia e la macchina da scrivere, ma anche le sequenze del labirinto (!), dell’ascensore con atrio inondato di sangue, il campo lungo con le gemelle, la steadycam nei corridoi con triciclo, il primo piano qui di Dan nello squarcio sulla porta della camera dove all’epoca campeggiava il sulfureo Nicholson/Torrance, la rievocazione della sequenza del bar.

C’è qui, solo qui, nient’altro che qui, anche la riesumazione di Jack Nicholson/Torrance più magrolino e anonimo (Henry Thomas). Insomma come se il regista Mike Flanagan (Oculus, Ouija) con beneplacito produttivo della Warner (pensiamo anche all’utilizzo ad inizio e fine il prorompente e pauroso tema di Shining di Wendy Carlos e Rachel Elkind), e con l’assenso testuale del romanzo di King, avesse avuto accesso a set e atmosfera kubrickiani così come un bambino sguinzagliato libero al luna park. L’effetto diventa quasi grottesco, in alcuni momenti penosamente naif, ma per logica consequenzialità narrativa anche logicamente inevitabile. Per questo si esce da Doctor Sleep con una stordente sensazione di sdoppiatura negli occhi per il devastante rimando cinematografico kubrickiano, ma anche con il solito magico e inequivocabile talento kinghiano di afferrare una dimensione soprannaturale lanciandocene in faccia il sapore malsano e raccapricciante.

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