di Francesco Degli Innocenti*
Rifiuti, i sacchetti biodegradabili non lo sono poi così tanto. E questo è un discreto disastro – scrive il professor Ugo Bardi nel blog de Il Fatto Quotidiano del 14 ottobre. Non posso negare che questi titoli sono sconfortanti per quelli che, come il sottoscritto, da decenni ne studiano la biodegradabilità. Ma con Ugo Bardi ho il piacere di dibattere in modo costruttivo da anni.
Il professore fa il suo lavoro di esperto ambientale con un approccio quasi filosofico, ossia dubitando in modo sistematico, ma non distruttivo, delle soluzioni alternative messe in campo per risolvere i crescenti problemi ambientali. Venditori di fumo ci sono, non si può negarlo, per cui accetto volentieri le “prospezioni” con cui il prof. Bardi cerca di scandagliare i prodotti compostabili per far meglio capire ai lettori quali sono i limiti e le potenzialità delle innovazioni.
Quello che pochi sanno è che, sin dagli anni 90, il settore delle plastiche compostabili è uno dei più normati e certificati, per cui le aziende che vogliono produrre in modo trasparente lo possono fare. Il concetto della compostabilità degli imballaggi, che, occorre ricordare, possono essere sia di plastica che di materiali ligno-cellulosici (carta, bambù, ecc.), nasce da una direttiva europea nel 1994.
L’idea è che i rifiuti di imballaggio che si ritrovano mescolati coi rifiuti di cibo possono essere utilmente recuperati sotto forma di compost, ovviamente se sono anch’essi biodegradabili. La compostabilità (che richiede la biodegradabilità intrinseca, la assenza di metalli nocivi, la disintegrabilità e l’assenza di effetti negativi sul compost finale) risulta particolarmente utile quando si formano rifiuti misti composti da rifiuti verdi o di cucina e rifiuti di imballaggio. Pensiamo a una sagra dove le posate di plastica tradizionale, non biodegradabile, vengano raccolte insieme coi rifiuti alimentari. Si crea un rifiuto non omogeneo e in pratica non riciclabile.
La plastica “contamina” i rifiuti di cibo e, viceversa, il cibo “contamina” la plastica. In queste circostanze, né la plastica né i rifiuti alimentari possono essere riciclati (come noto il riciclo richiede flussi omogenei), ma devono essere smaltiti in discarica o in inceneritore. Ma se le posate sono compostabili, allora il rifiuto “misto” diventa “omogeneo” dal punto di vista della biodegradabilità e può essere recuperato mediante compostaggio.
Questo modello è applicato da anni con successo in molti contesti, come nelle sagre, negli eventi sportivi, nelle mense, ecc. “Sono sufficientemente biodegradabili?”, ci si chiede. Occorre distinguere tra la biodegradabilità, ossia la proprietà intrinseca del materiale, e la velocità di biodegradazione. Il legno è biodegradabile, su questo non ci sono dubbi. Però un tronco di legno avrà grossi problemi a compostare in tempi brevi in un impianto di compostaggio, mentre la sua segatura composterà velocemente. Quindi è importante non confondere la biodegradabilità con la compatibilità di un certo prodotto con un certo impianto.
Alcuni impianti di compostaggio sono progettati per rigettare tutto quello che sembra un “contaminante“. Questi sistemi non riconoscono il prodotto compostabile da quello tradizionale e lo scartano. Quindi esistono situazioni in cui i prodotti compostabili non entrano nell’impianto perché scartati a monte. Questo però non toglie che i prodotti siano veramente biodegradabili e compostabili e che, in impianti progettati in modo alternativo, il processo vada a buon fine.
È utile la plastica compostabile in condizioni di ristorazione collettiva estemporanea? La risposta è sì, quando non è possibile per motivi igienici o logistici usare posate riusabili lavabili, perché si creano i presupposti per il recupero organico (ossia sotto forma di compost). In ogni caso, i prodotti non devono essere discriminati su base emozionale, ma su base delle performance.
Una stoviglia di bambù e una di plastica biodegradabili sono analoghe in termini di tempi di disintegrazione. Entrambe sono soggette al riciclo interno, quel trattamento che gli impianti fanno con gli oggetti più grossi che, vagliati a valle, vengono reimmessi a monte per completare la disintegrazione in due cicli di compostaggio, funzionando nel contempo come materiale “strutturante” notoriamente necessario per aver una buona aerazione del cumulo.
*responsabile di Ecoproducts e comunicazione ambientale di Novamont